Sarebbe
opportuno ricordare.
13 marzo 1979, Bergamo: Guerriglia proletaria uccide
il brigadiere Gurrieri.
L’uccisione dell’appuntato dei CC,
Giuseppe Gurrieri, avvenuta martedì 13 marzo alle ore 19,20 in un cortiletto di
Bergamo alta antistante lo studio del dottor Gualteroni, medico del carcere
cittadino, è stata rivendicata nella notte scorsa dal gruppo «Guerriglia
proletaria» con il seguente testo:
«Senta, qui è Guerriglia. Un nostro nucleo armato ha
giustiziato questa sera un carabiniere nel corso di un’azione che era tesa a
colpire l’aguzzino di via Gleno (la via del carcere). n.d.r.) dottor
Gualteroni. Tenga bene in mente: Guerriglia proletaria. Un nostro nucleo armato
ha giustiziato un appuntato dei carabinieri che aveva opposto resistenza armata
durante l’azione. Faremo avere un comunicato domani».
Con la cronaca di quel tempo cerchiamo di ricostruire la
dinamica attraverso i numerosi testimoni oculari presenti al fatto.
I terroristi scelgono per l’azione l’ora di punta
delle visite. La sala d’attesa è stracolma, al punto che alcune persone devono
attendere il turno nel cortiletto su cui si affaccia la porta dello studio. Tra
queste c’è l’appuntato Gurrieri che accompagna il figlio tredicenne da alcuni
giorni febbricitante. Il carabiniere è in divisa, uscito da poco dall’ufficio
del comando di Bergamo, dove svolgeva mansioni di dattilografo.
Alle 19,20 giungono nel cortile due
uomini, giovani, armati, a viso coperto. La presenza di un carabiniere è
inattesa e provoca un attimo d’incertezza, poi uno dei due giovani si avvicina
all’appuntato e lo tiene sotto il tiro della pistola, intimandogli di entrare
nello studio del medico. L’appuntato Gurrieri invece resta qualche secondo
fermo, quindi sposta lateralmente il figlio e cerca di afferrare il braccio del
terrorista. C’è una breve colluttazione, poi i due si divincolano e il giovane
spara cinque colpi. Dopo di che la fuga.
Immediatamente dopo sono cominciati !
fermi, le perquisizioni domiciliari, e personali. Moltissimi giovani faccia al
muro, soprattutto nelle vie e nelle piazze del centro storico. La città vecchia
è stata circondata e isolata da polizia e carabinieri. Per tutte le ore che
hanno preceduto la rivendicazione, la pista seguita è stata quella definita da
carabinieri e polizia «dei drogati di città alta» un modo per dare una lezione
ai giovani e ai compagni che hanno fatto del centro storico il loro punto di
ritrovo. Molti sono stati quindi i fermati. Tutti però dopo i primi
accertamenti e interrogatori sono stati rilasciati.
Fin qui la cronaca di “parte” di Lotta continua, il 15 marzo 1979.
La telefonata di rivendicazione è opera
di Maurizio Lombino, “portavoce” dell’Autonomia bergamasca.
Arrestato per una rapina, si pente. Tra
le tante storie raccontate sull’area politica e le reti militari espressione
dei vari comitati comunisti, tira fuori anche il nome di “Brunella” come
basista dell’omicidio Ramelli.
Il suo arresto, rientrata dall’estero e
le sue confessioni, travolgeranno il castello di menzogne diffuso da
Avanguardia operaia per proteggere gli assassini e la versione partigiana di
Lotta Continua.
Sono le accuse di Lombino, essendosi
dissociato l’altro componente del commando, Enea Guarinoni, ben presto arrestato,
a portare alla condanna all’ergastolo di Narciso Manenti, rifugiato
tempestivamente a Parigi.
Nel 1987 la Francia rifiutò
l’estradizione ma, successivamente, fu inserito nell’elenco dei latitanti di
cui si richiedeva la consegna, insieme a Pietrostefani e a un’altra diecina tra
i quali il Manenti, il pistolero.
INIZI DELLA RESISTENZA A BERGAMO
Testimonianza
di Adolfo Scalpelli
A Bergamo,
la Resistenza ha avuto inizio con un’azione pubblica, una manifestazione
popolare nel cuore della città. L’annuncio dell’armistizio stipulato tra il
governo italiano e gli Alleati era stato diffuso da poco tempo che già la
popolazione, dominata dall’incertezza, affluiva davanti alla Torre dei Caduti
della guerra del 1915, quasi a volersi riallacciare alla tradizione, interrotta
dal fascismo, della lotta contro l’invasore tedesco. Da quella torre parlarono
gli uomini che piu si erano distinti nel periodo del governo Badoglio: tra gli
altri Ernesto Rossi.
Non furono
pronunciati discorsi rivoluzionari e nemmeno si udirono incitamenti alla
resistenza; dominò soltanto nella manifestazione l’atmosfera di preoccupazione
che nasce di fronte ad avvenimenti di cui sono oscuri gli sbocchi e le
prospettive. Furono discorsi antifascisti che richiamavano alle responsabilità
del momento. Era però evidente come nessuno accettasse l’idea che l’atto del
governo potesse veramente por fine alla guerra. Infatti, mentre sulla piazza
principale della città si svolgeva il comizio, nell’edificio della prefettura
iniziavano concitati colloqui, diretti ad ottenere dal governo precise
dichiarazioni e ad indurre il comando di presidio a consegnare le armi, se non
direttamente alla popolazione, ad un organismo di indubbia fede patriottica
quale poteva essere considerata l’Associazione degli ex-combattenti.
Seguire con
ordine questi avvenimenti è importante per comprendere le ragioni della nascita
della prima organizzazione clandestina formatasi in città senza l’aiuto dei
partiti, che, d’altronde, avevano ripreso una stentata vita semilegale solo
durante i quarantacinque giorni del governo Badoglio. (Cfr. Gaetano Salvemini,
Lettere sulla politica italiana del ’44-’45 (un carteggio inedito a cura di
Ernesto Rossi) in Ponte, luglio 1961, p. 10 2 1): « Dopo il 25 luglio ’43, io e
i miei amici abbiamo subito proclamato la necessità della guerra alla Germania,
pur continuando a far propaganda contro il re e Badoglio. La sera
dell’armistizio io parlai dalla Torre dei Caduti di Bergamo, riaffermando la
mia fede repubblicana, ma dicendo che in quel momento bisognava ubbidire a
Badoglio. Non c’era altro da fare ». (Lettera di Ernesto Rossi a Salvemini del marzo 1945 da Ginevra).
Come è noto
l’armistizio colse di sorpresa la popolazione dei territori non occupati dagli
eserciti alleati, anche se, dopo il 25 luglio, da ogni parte si sperava che
l’Italia ponesse fine alla guerra e denunciasse l’alleanza con la Germania,
Inoltre il fatto gravissimo del governo che, fuggendo, aveva lasciato senza
direttiva alcuna l’esercito, provocò lo sbandamento pressoché totale delle
truppe e, fin dalle prime ore della notte tra l’8 e il 9 settembre, quegli
episodi di fuga che già sono stati descritti e che a Bergamo ebbero caratteristiche
analoghe a quelle delle altre città.
I quadri
dirigenti delle formazioni politiche, che avevano potuto costituirsi entro gli
esigui margini di libertà lasciati loro dal governo Badoglio, furono invece
molto attivi. Come abbiamo detto, infatti, mentre sulla piazza avveniva una
significativa manifestazione antifascista, in prefettura si riunivano vari
esponenti di vecchie e nuove correnti per concretare un’azione di difesa delle
posizioni raggiunte dall’Italia; in sostanza, per mantenere fermo l’armistizio.
I giornali apparsi in quei giorni rispecchiano gli avvenimenti solo attraverso
le comunicazioni ufficiali, senza cronache e senza commenti; per questa ragione
oggi, forse ancora prima di fare la storia, è necessario ricostruire la cronaca
di quelle ore. Un primo documento riguarda l’appello lanciato dall’Asso'
dazione degli ex-Combattenti per la formazione di reparti armati, formulato
nella notte del 9 settembre tra l’incalzare degli avvenimenti, quando ormai
appariva chiaro che l’esercito si stava dissolvendo e che sarebbe stato di
sempre minor aiuto alla difesa della città, e mentre giungevano notizie, non
tutte esatte, dell’approssimarsi delle forze tedesche.
Dice
l’appello nel suo testo integrale: « La Federazione provinciale
dell’Associazione nazionale ex 'Combattenti si rivolge ai cittadini, anche non
combattenti, e specialmente alla gioventù studiosa, perché presentino domanda
di arruolamento volontario nelle forze armate allo scopo di assicurare
l’eventuale difesa del Paese nel momento delicato che esso attraversa. Le
domande vanno presentate agli uffici della Federazione in via Torquato Tasso e
dovranno con' tenere nome, cognome, paternità, data di nascita, grado militare
già eventualmente rivestito, arma, luogo di residenza e indirizzo ». Benché, in
contrasto con l’atteggiamento dilatorio ed evasivo delle autorità,
sostanzialmente impreparate e colte di sorpresa dagli avvenimenti, gli autori
dell’appello fossero consci che la situazione poteva richiedere l’intervento
volontario del popolo in armi, il documento è tuttavia gravemente limitativo
verso le forze che avrebbero dovuto intervenire ormai direttamente nella
battaglia.
Quell’inciso
diretto alla « gioventù studiosa », che pare escludere le forze del lavoro e
soprattutto l’unione delle une alle altre, è l’indice, il termometro
dell’ambiente in cui l’appello è stato concepito. Si tratta di un ambiente
monarchico-liberale che, pur rinnovato dopo il 25 luglio, non afferra nella sua
piena realtà Resistenza di possibilità nuove maturate in Italia nel fronte
della lotta antifascista : non afferra in sostanza che proprio nelle classi
popolari, dove più si è sofferto per il fascismo e per la guerra, più è
maturato il senso dell’opposizione e ' dell’opposizione armata.
La decisione
dell’Associazione degli ex-Combattenti era stata presa nel corso della riunione
tenutasi presso la prefettura e alla quale si è accennato. La riunione si era
svolta nelle ore serali dell’8 settembre e vi erano convenuti il comandante del
presidio militare, colonnello Poli, l’avv. on. Bortolo Belotti, il presidente
degli ex combattenti prof. Bruni, i commissari dell’Unione lavoratori della
industria Piccinini, Zambianchi e Pezzini, l’avv. Vajana, il dott. Battaggion,
il rag. Tulli e il dott. Tolazzi. In
quella sede furono approvate, per essere successivamente rese pubbliche, tre
disposizioni: « ciascuno attenda, come soldato, al suo posto di lavoro ed
occorrendo' lo riprenda immediatamente, nelle officine, nei campi e negli
uffici.
Nel novembre
1943, a conoscenza di un ordine di cattura emanato nei suoi confronti decise di
riparare in Svizzera, dove morì il 25 luglio 1944 a Sovico. Autore di un lavoro sulla resistenza
bergamasca: Alfonso Vajana, Bergamo nel ventennio e nella resistenza, Bergamo,
1957. Diresse col Battaggion la Voce di Bergamo, nel periodo del governo
Badoglio e il Giornale del popolo quando, dopo la liberazione, divenne organo
del CLN . Ettore Tulli, comunista, per
le azioni commesse durante i giorni dell’armistizio fu attivamente ricercato da
fascisti e tedeschi. Scampato alla cattura per alcuni mesi si diede alla attiva
organizzazione di bande armate in montagna, finche venne catturato alle porte
della città da uno dei peggiori seviziatori bergamaschi, nella mattinata del 17
dicembre. Condannato a morte dal tribunale tedesco, ebbe la pena commutata in
12 anni di lavori forzati in Germania. Tornò in Italia a liberazione avvenuta.
La Voce di
Bergamo, 9 settembre 1943, sotto il titolo: « Bergamo per la difesa del Paese
». « l’Associazione combattenti raccoglierà domande di arruolamento volontario
e in ogni caso resta pronta a disposizione del comando di presidio per ogni
eventuale necessità; « ciascuno osservi e faccia osservare con volonterosa
disciplina le disposizioni in vigore relative all’attuale stato di assedio,
nonché ogni altra disposizione che l’Autorità crederà di impartire ».
La sostanza
di queste disposizioni, aggiunte ad un appello alla resistenza armata che resta
confinato sul piano astratto e velleitario, è un’affermazione di inutile
legalitarismo fatta nel momento in cui tutte le sovrastrutture dello Stato
cadono in pezzi sotto una nuova e più violenta forma di oppressione tedesca
validamente puntellata dal fascismo italiano, che riappare rapidamente in
divisa. Quelle stesse autorità civili e militari che richiamano alla legalità,
che permettono gli arruolamenti volontari con tanto di domanda scritta, che
giungono a promettere l’istituzione di una guardia nazionale civica, non
permetteranno che alla popolazione sia distribuito un solo fucile. Le prime
armi che il popolo si conquista con una manifestazione di rivolta contro le
autorità fedeli al governo Badoglio appartengono al drappello che presidia la
prefettura: alcuni dei soldati vengono disarmati, altri consegnano
spontaneamente le armi, né viene presa in considerazione l’opposizione
dell’ufficiale comandante. Una ventina di fucili dll’armeria passa così nelle
mani di un gruppo che formerà, se si vuole, la prima squadra partigiana apparsa
in città. Non molte ore dopo, alle ore 16 del 9 settembre, i tedeschi sono in
città. Senza bisogno di procedere ad un’azione massiccia o di spiegare larghe
forze a dimostrazione della loro potenza, i tedeschi, che peraltro avevano
sempre presidiato l’aeroporto militare di Orio al Serio a pochissimi chilometri
dalla città, si limitano ad una presenza. I comandi locali delle Forze armate si erano
dissolti e non fu possibile nemmeno al commissario comunale della città,
Locatelli Milesi, prendere contatto con essi. Per rendersi conto dell’atmosfera
di dramma creatasi nelle caserme bergamasche si vedano le efficaci pagine di
diario lasciateci da Sereno Locatelli MIlesi, (Nove giorni a Palazzo Frizzoni,
8-16 settembre 1943, Bergamo, 1945* pp* 8^9, relazione Tulli, p. 2. Emma Coggiola. Umili e frammentarie pagine
della Resistenza in Bergamo, Bergamo, 1952, p. 3. occupazione psicologica),
inviando nel centro carri armati ed appostando, ai principali incroci,
motocarrozzette fornite di mitragliatrici.
Ma sarà
proprio questa dimostrazione provocatoria e brutale ad infondere maggior vigore
alla protesta e alla rivolta. Mentre i tedeschi entravano in città e procedevano
all’occupazione delle caserme e dei punti nevralgici, per altra strada gli
esponenti dell’antifascismo, le spalle gravate da anni di silenzio, di confino
o di carcere, dovevano lasciare le loro case e cercare rifugio sulle montagne o
nelle città vicine o in abitazioni di amici, per riprendere, sotto varie forme
ma in modo più vasto e spiegato, la battaglia antifascista durata vent’anni. I
giovani anonimi invece, non ancora compromessi, gli stessi che avevano preso
parte alle manifestazioni dell’8 e del 9 settembre possono restare in città e
dare il via ad un nuovo sistema di vita: se la loro giornata avrà
apparentemente il solito ritmo, le medesime preoccupazioni e gli stessi
problemi, in realtà il normale svolgersi della loro attività acquisterà anche un
aspetto clandestino.
I primi
giovani ad avere un’attività clandestina sono coloro che hanno preso parte al
disarmo del drappello della prefettura: la maggioranza di loro, non collegata
ancora all’organizzazione di Giustizia e Libertà ed al partito comunista, dà
vita alla prima formazione di lotta clandestina onerante in forma organizzata
nell’interno della città. Essa sorgerà in funzione del 9 settembre e si
chiamerà: banda Turani. Arturo Turani, architetto, fu socialista in gioventù.
Non risulta che, durante il periodo della dominazione fascista precedente il 25
luglio 1943, abbia preso parte ad una qualche attività di natura politica «
impegnata « con i partiti di sinistra. Né è possibile provare la sua
partecipazione o la sua presenza attiva nelle file antifasciste dopo il 25
luglio. Questo fatto tanto più è in contrasto con la posizione di primo piano
da lui assunta dopo l’8 settembre quando si consideri che il raggruppamento del
Turani fino alla sua morte seppe catalizzare e assorbire gran parte dei gruppi
antifascisti formatisi spontaneamente all’annuncio dell’occupazione tedesca.
Turani riesce a fare della sua formazione il centro propulsore di una sempre
più vasta attività antifascista sul piano militare e a convogliare nelle sue
file le forze antifasciste della borghesia cittadina per una batta La sua
influenza è netta, precisa, documentabile. In una relazione del giugno 1945,
stesa da Gianni Gervasoni, che fu molto vicino alla banda Turani, si possono
facilmente rintracciare dati che testimoniano di tale influenza (io). Dalla
relazione si apprende, ad esempio, come sia stato assorbito un gruppo Magni e
le forze ridistribuite secondo le necessità dell’organizzazione e lo stesso
Gervasoni, con i suoi uomini soprattutto studenti, aggregato alla banda. E,
ancora più significativo, lo stretto rapporto stabilitosi fra l’attività del
Turani e il lavoro del prof. Vacha, il quale, già capitano dei carabinieri,
operò senza incertezza per la costituzione di una catena di staffette capace di
accompagnare dalla città al confine, fino all’espatrio, quei carabinieri che
non intendevano restare nell’arma agli ordini del governo di Salò.
In breve
tempo la formazione divenne una forte organizzazione che ingrossava
continuamente le sue file e poteva anche contare su elementi che fin dai primi
giorni dell’occupazione si erano fatti un’esperienza in diversi settori della
cospirazione e della lotta. L’influenza della banda Turani, estesasi anche alla
periferia della città e in provincia, permise la formazione di una serie di
distaccamenti in località importanti sia della città che delle valli
bergamasche. L’azione che certo impose maggiormente la banda Turani
all’attenzione dei gruppi isolati fu il rapido colpo, condotto con precisione
militare, contro il distretto di Bergamo, quasi sotto gli occhi dei tedeschi
che stavano giungendo per occuparlo, e che permise al Turani di distruggere
documenti, impossessarsi di mappe di una certa importanza e asportare una
notevole quantità di armi e di munizioni utilissime per l’equipaggiamento delle
squadre d’azione e dei primi distaccamenti di montagna. Il gruppo che condusse
l’assalto non subì perdite di alcun genere, né fu possibile ai fascisti
stabilire quali persone vi avessero preso parte.
La struttura
interna della formazione del Turani possiede tutte le caratteristiche di
un’associazione di persone unite fra loro da Il termine di banda Turani, è nato immediatamente
dopo che la formazione fu costretta allo scioglimento e dopo di allora tale
denominazione è rimasta. (Relazione
Gervasoni, p. 2. lbid., p. 4).
L’organizzazione
porta a termine operazioni militari concrete e positive, azioni clamorose di
propaganda, ma trascura, anche per l’assenza di una tradizione cospirativa,
un’opera di reclutamento lento e guardingo e di mimetizzazione. Con troppa
fiducia si accettano e si immettono nell’organizzazione i nuovi elementi,
cosicché oltre ai giovani, mossi dall’ardente desiderio della lotta, entrano
anche le spie, che come vedremo giocheranno un ruolo importante nella rovina
della banda. Esse saranno in grado di penetrare fin nel cuore del comando e di
apprendere decisioni e direttive che avrebbero dovuto essere tenute
massimamente segrete. Sarebbe assurdo, d’altra parte, pretendere che il Turani,
con pochi collaboratori, potesse veramente tenere nelle sue mani le fila di una
formazione che in poche settimane aveva raggiunto il numero di 236 componenti,
senza decentrare tali forze con la costituzione di comandi periferici. Ma se,
effettivamente, furono costituiti distaccamenti che andavano dalla periferia
cittadina alla montagna, è anche vero che tutti facevano capo direttamente al
Turani il quale non solo cominciava ad essere conosciuto da tutti i comandanti
di distaccamento, ma permetteva anche a qualsiasi persona della banda di farsi
ammettere, quando volesse, alla sua presenza. In sostanza le regole ferree, in
uso presso i partiti che avevano continuato in clandestinità la loro lotta,
allo scopo di tenere segreta la rete cospirativa, erano violate a tutto
detrimento delle possibilità di attacchi di sorpresa contro il nemico.
Tuttavia la
conoscenza delle località in cui gli aderenti operavano era tale da rendere
possibile di recare localmente, grazie alla suddivisione della struttura in
numerosi distaccamenti, continue offensive contro fascisti e nazisti. Benché
agli effetti della battaglia quotidiana abbiano avuto una maggior importanza ed
efficienza i distaccamenti cittadini, va compilato per l’Ufficio Patrioti di
Bergamo in data 3 gennaio 1946.
Il
distaccamento principale della città era direttamente comandato dal Turani,
mentre quelli periferici e dei comuni limitrofi erano così distribuiti: Alzano
Lombardo, Vincenzo Breda; Nembro, Enza Barozzi; Longuelo, Giuseppe Magni;
Lallio, Marino Mazzucconi. Le formazioni di montagna erano le seguenti:
Fiobbio, Gabriele Castellini; Rovetta, Roberto Pontiggia; S. Brigida, Luigi
Medolago. Inizi della Resistenza a Bergamo peraltro considerato anche lo sforzo
compiuto dalla banda, e in particolare dal Turani, per organizzare alcune
formazioni di montagna il cui compito non fosse esclusivamente quello di far
espatriare i prigionieri e i ricercati dalla polizia, ma che fossero altresì
orientate alla guerriglia e alla lotta armata in stretta collaborazione con le
formazioni cittadine e le organizzazioni clandestine dei centri abitati.
L’iniziativa presa dalla formazione in quest’ultimo senso ha un notevole
rilievo, riguardo al periodo in cui si colloca, quando ancora, sempre se si
escludano il partito comunista e il partito d’azione, le altre formazioni
pensavano esclusivamente a forme quasi caritatevoli di aiuto ad ex prigionieri,
consistenti nella fornitura di cibo e di vestiti, attività peraltro non
estranee neppure all’organizzazione del Turani.
Alle
formazioni di montagna del Turani mancò però il tempo di provare nella pratica
dell’attacco armato la loro efficienza organizzativa giacche ai primi di
dicembre esse subirono il contraccolpo degli arresti effettuati in città e in
parte furono costrette a sciogliersi, destino comune ad alcune delle
organizzazioni sorte nei primi mesi dell’occupazione nazista. Va però
sottolineato il fatto importante che, in alcune di tali formazioni, come in
quella di Rovetta, si è raggiunto quasi un punto di saldatura fra
organizzazioni di pianura e organizzazioni di montagna con una pianificazione
degli attacchi al nemico. Mentre, grazie all’apporto dei documenti
rintracciati, risulta abbastanza agevole ricostruire le condizioni interne del
lavoro della formazione, molto meno facile è indagare sui rapporti intercorsi
fra la banda Turani e le organizzazioni nazionali e provinciali della
Resistenza. E’ ovvio che gli organismi provinciali di emanazione nazionale,
operando per l’unificazione della Resistenza, intendessero stabilire contatti
permanenti, politici ed operativi, con una formazione che si era già
notevolmente distinta nella lotta antitedesca. Il CLN provinciale invia così
due suoi delegati che prendono contatto con il Turani: nel mese di ottobre si
hanno due incontri, stranamente, senza risultato alcuno.
Testimonianza
di Noradino Torricelli: « A metà ottobre [Turani] annunciava una visita alla
formazione di Rovetta e di aver raggiunto un accordo con Milano per un più
fattivo aiuto alle file ingrossatesi. Ma le armi erano sempre poche. Turani
venne lassù e mi propose un attacco al Teatro Nuovo in occasione di una
riunione di nazifascisti, quale prima dimostrazione che i partigiani erano
organizzati e per approfittare dello scompiglio onde prelevare armi, munizioni,
viveri, indumenti e danaro ».
Nel corso
dello stesso mese vengono anche interrotte le trattative che non saranno più
riprese. E’ difficile stabilire quali siano state le cause che hanno portato
alla rottura dei rapporti fra le due parti: gli unici accenni al fatto li
ritroviamo nella citata relazione del Gervasoni: « Purtroppo -scrive- due
approcci del capitano Turani con un noto professionista cittadino e con una
personalità che rimase più tardi vittima della sua operosità antinazista,
benché fatti anche a mio nome, non sortirono buon effetto. Fu accolto con
diffidenza, si ebbe forse timore di compromettersi, si preferì lasciarlo solo a
continuare nel rischio sempre crescente. Ma proseguimmo con fede immutata,
trovando qualche aiuto economico occasionale e sborsando nuovamente di tasca
nostra ». Intorno alle ragioni della mancata intesa tra CLN e formazione Turani
non si possono avanzare che congetture, la prima delle quali potrebbe essere
che probabilmente i delegati del CLN si siano resi conto della struttura
dell’organizzazione ed abbiano reputato che un’attività così scoperta avrebbe
potuto portare pericolose conseguenze per tutto il movimento. Può anche darsi
che le difficoltà siano sorte quando si è trattato di fissare le rispettive
posizioni e funzioni e che ogni possibilità di accordo sia naufragata di fronte
alla rivendicazione di una gelosa autonomia, male intesa forse da parte di
alcuni elementi della formazione Turani.
Questa
supposizione ci viene suggerita dall’insistenza con la quale gli esponenti più
vicini al Turani accentuano l’assenza assoluta di colore politico della
formazione. « Poiché i gruppi Turani non avevano alcun colore politico, ma
desideravano solo la concentrazione e l’aiuto sollecito e generoso di tutti, ci
adoprammo per una chiarificazione in tal senso, nel senso cioè di un’intesa con
il CLN ». « Nonostante la sua viva fede politica e la sua non rinnegata
attività giovanile in seno al partito socialista, ora non aveva altra mira se
non la liberazione d’Italia ». « ... noi ammiravamo nell’architetto l’uomo che
aveva saputo sacrificare le sue idee per il bene dell’Italia (Relazione
Gervasoni, p. n . Ibid., p. i l . Relazione anonima diretta al C. V . L., p. i.)
avevamo solo fiducia in lui ». « Unica idea al disopra di ogni tendenza dei
partiti: l’Italia libera dal giogo nazifascista ». In queste affermazioni vi è
buona parte dell’atteggiamento di apartitismo sostenuto da formazioni che,
respingendo accordi unitari sulla base di un’unica piattaforma di lotta,
preferirono restringere le loro stesse possibilità di espansione pur di conservare
un’assurda forma di autonomia che poteva soltanto indebolire la formazione
stessa e l’intero movimento. D’altronde la banda Turani manterrà sempre questa
sua posizione, determinata dalle origini sociali della maggioranza che la
compone. Abbiamo già visto quale tipo di contatti il Turani, subito dopo
l’armistizio, ebbe in città e quali gruppi subirono maggiormente la sua
influenza: gruppi di studenti e uomini isolati, di origine piccolo borghese,
impiegati nel commercio o in aziende locali e noti in città.
La
maggioranza di giovani studenti che facevano parte del raggruppamento era
formata da coloro che per primi avevano risposto all’appello lanciato l’8
settembre dall’Associazione degli ex Combattenti, di cui abbiamo parlato. Il
comando della formazione, che naturalmente subisce le influenze degli
orientamenti borghesi, non sfugge alla tentazione comune alle brigate autonome
di affidare il comando militare ad un ufficiale di carriera. Ecco la
testimonianza del Gervasoni: « Il problema militare e dell’organizzazione
sistematica della provincia urgeva più che mai. Quasi da ogni angolo e paese
pervenivano notizie di movimenti e di gruppi in attesa di collegamento, di
soccorsi, di ordini, di inquadramento militare. Si facevano parecchi nomi di
possibili capi, ma la scelta in città non era facile. Si desiderava altresì un
alto ufficiale di carriera e da Milano era partita più di una proposta e di una
promessa.
Alcuni nomi
proposti non erano sembrati di sicura garanzia. Alla fine si pensò ad una
commissione provvisoria di tre ufficiali di complemento ». Diversa personalità
era quella del commissario della formazione: Moretti. Era un comunista, molto
giovane, ma con già sulle spalle una dura esperienza rivoluzionaria. Da una testimonianza
di Vincenzo Breda (vice comandante della formazione) contenuta in Relazione
Gervasoni, (p. 18. Testimonianza
Torricelli, cit., in Relazione Gervasoni, p. 5. Relazione Gervasoni, p. 7.) Adolfo Scalpelli sedicenne da Bergamo era
riuscito a raggiungere in Francia gli organi di arruolamento volontario per le
brigate antifasciste combattenti in Spagna e, dopo la guerra, aveva vissuto
clandestinamente in Francia a contatto con i circoli più avanzati del
fuoruscitismo italiano. Il Moretti portò indubbiamente fra le file
dell’organizzazione del Turani il frutto della sua esperienza di lotta
antifascista e di cospirazione clandestina, fino a che, seguendo anch’egli la
sorte comune, fu arrestato e rinchiuso nella sede del Convitto Paleocapa,
meglio noto col nome di collegio Baroni, trasformato in carcere dalla Gestapo.
Di qui if Moretti riuscirà a fuggire con il Castellini, comandante del
distaccamento di Fiobbio.
La loro fuga
ebbe fasi romanzesche. Prelevati da una cella per essere condotti
all’interrogatorio, i due riuscirono a distrarre la scorta e, trovata una
finestra senza inferriate, vi si gettarono, saltando da un secondo piano. Il
Moretti rimase incolume, mentre il Castellini si spezzò una gamba: ma l’amico
se lo caricò sulle spalle e lo portò in salvo benché la Gestapo, rinforzata da
altre squadre di polizia, avesse già dato inizio alla caccia. I due ripresero
la lotta, il Moretti quasi sempre a Milano con incarichi importanti e il
Castellini nella divisione partigiana Valdossola. La brigata del. Turani,
principalmente a causa della fragilità della sua struttura, ebbe breve vita, ma
spericolata, febbrile, gloriosa. Numerose sono le azioni di attacco effettuate
nel giro di poche settimane, il tempo della sua esistenza. Nel questionario
compilato dalle brigate dopo la liberazione, alcune di queste azioni sono
elencate in forma scheletrica, senza fornire particolari; nè ricche descrizioni
è possibile avere da altri documenti. Tuttavia tenendo anche conto delle
difficoltà in cui si dibattevano le formazioni all’indomani dell’occupazione
tedesca e perciò nei primi giorni della loro esistenza, è importante
sottolineare la continuità degli attacchi portati contro obiettivi militari di
grande interesse per i tedeschi, come il campo d’aviazione di Orio al Serio.
« Avevamo
con noi a contatto continuo un giovane rappresentante d'un forte partito di
massa, che ci seguiva, che si adoperava nelle missioni più rischiose e
perseguiva l’intento di conseguire la concentrazione dei partiti in definitivo
e operoso comitato... ». Inizi della Resistenza a Bergamo quasi alla periferia
della città e perciò a pochissimi chilometri dal centro e che ospitava in gran
parte velivoli da caccia, pur non rappresentando una base aerea di particolare
importanza, presentava però molto interesse come deposito di materiale di
ricambio, di munizioni e di carburante. Contro gli impianti di questo
aeroporto, nel settembre e nell’ottobre del 1943, si è accanita l’opera di
sabotaggio delle squadre della banda Turani, al comando di Giuseppe Sporchia,
il quale era riuscito a ricostruire la pianta completa del campo, copia della
quale passò anche, a quanto pare, nelle mani degli alleati. La notizia ci è
confermata dal Gervasoni. Il 4 ottobre viene intrapresa un’azione, e non è la
prima, contro la villa Pesenti di Alzano Lombardo, occupata da forze tedesche,
per ricuperare ingenti quantità di benzina già appartenenti all’esercito
italiano. Il 19 ottobre viene sferrato un attacco contro la caserma Seriate
della città e i fascisti, ivi asserragliati, vengono attaccati con le armi
nelle loro stesse difesissime posizioni.
E ancora: in
novembre, altro attacco alla villa Pesenti e, il 15, al distretto militare dai
cui uffici vengono sottratti importanti documenti. Si ha pure notizia di due
arditi progetti che erano allo studio: un attacco ai fascisti bergamaschi
riuniti in un grande convegno al Teatro Nuovo e la distruzione dei ponti di
Sedrina per tagliare la via del ritorno ai fascisti impegnati in un
rastrellamento a San Martino de’ Calvi. Ma fu una manifestazione popolare, cui
parteciparono centinaia di persone, il 4 novembre, a lasciare un segno profondo
nella città. La dimostrazione fu preparata dalla diffusione di numerosi manifestini
effettuata a cura non solo della formazione del Turani, ma, si può dire, di
tutte le organizzazioni presenti allora nella lotta.
L’appuntamento
era alla Torre dei Caduti per le ore 14 del 4 novembre. La piazza si riempì di
gente e molti fiori vennero gettati ai piedi della Torre in omaggio ai caduti
della Grande Guerra combattuta contro i tedeschi. La polizia fu colta di
sorpresa e gli agenti sopravvenuti usarono tutti i mezzi per disperdere la
folla che, invece di andarsene, si incamminò verso il monumento a Garibaldi,
alla Rotonda dei Mille, intonando l’inno garibaldino, (Ibid., p. 7. Memoria Torricelli, cit., in Relazione
Gervasoni, p. 6; v. anche nota n. 15. Emma Coggiola, op. cit., pp. 9-10-11), mentre i tedeschi, dalle finestre dei loro
comandi, guardavano ignari i giovani e le donne nella piazza sottostante. Ad
intervenire questa volta fu una vecchia conoscenza dei bergamaschi: il
segretario federale fascista fino al 25 luglio, tornato ora a Bergamo sotto la
scorta delle baionette tedesche. Ben protetto anche ora, imitando nelle sue
pose gli atteggiamenti di Mussolini, egli tentò di iniziare un discorso, ma,
dato l’umore della folla, preferì limitarsi a calpestare i fiori gettati in
omaggio di Garibaldi. Due arrestati furono più tardi rilasciati per
interessamento del Turani.
Quindici
giorni dopo questa elettrizzante manifestazione antifascista Arturo Turani
veniva arrestato. Nella notte fra il 19 e il 20 novembre elementi della
gendarmeria tedesca insieme ad alcune comparse fasciste si presentarono al n.
13 di via Pignolo, dove il Turani abitava. Quella notte era rifugiato nella
casa anche un ex prigioniero jugoslavo, il quale avrebbe dovuto ripartire la
mattina seguente per accompagnare oltre il confine un gruppo di suoi
commilitoni. Non si può dire che i poliziotti abbiano trovato molto nel corso
della perquisizione, giacche le carte cifrate, i documenti, i timbri e il
materiale di propaganda erano occultati in un’altra abitazione.
Sfortunatamente
però sul tavolo del Turani era rimasto il cuscinetto per i timbri, sul quale,
quasi asciutto d’inchiostro, era visibilissima l’impronta dell’aquila tedesca,
lasciata dalla pressione del timbro usato per la falsificazione dei certificati
bilingui. Per i tedeschi questa scoperta ed il rinvenimento di alcune armi
furono prove schiaccianti: ma il colpo maggiore lo fecero con l’appostamento
che portò all’arresto di venti persone, tutte dirette con poca circospezione
nell’abitazione del Turani, che serviva da base alla formazione. Tra gli
arrestati il commissario Moretti, i comandanti dei distaccamenti di Rovetta,
Roberto Pontiggia, di Lallio, Marino Mazzucconi, di Fiohbio, Gabriele
Castellini: il capitano Bellotti, e altri membri di minore importanza, ma tutti
al corrente di molte cose. Per il momento si salvò Giuseppe Sporchia, avvisato
da chi aveva visto la colonna degli arrestati salire a piedi, scortata dai
tedeschi, verso il convitto Baroni. Gli arresti però continuarono e colpirono
con una certa precisione (Relazione Gervasoni, p. 12.), il che dimostra quanto
la polizia e la Gestapo sapessero di ciò che avveniva all’interno della
formazione. Tra gli arrestati di quei giorni furono molti giovani, che
continuarono poi attivamente nella lotta per la libertà, ma il vero « colpo »
per la polizia fu di poter mettere le mani anche su Giuseppe Sporchia e Cesare
Consonni. Quest’ultimo fu il primo ad essere fucilato dai tedeschi, dopo la
condanna a morte, il 6 gennaio 1944.
Pochi giorni
prima di morire scriveva ai genitori e ai fratelli: « Poche righe vi lascio: è
solamente per dirvi che non c’è stato un solo istante in cui non vi abbia
pensato. Abbiate coraggio e pregate per l’anima mia... io veglierò su di voi...
». Giuseppe Sporchia, che fu catturato il io dicembre 1943 in viale Vittorio
Emanuele, mentre si recava ad una riunione clandestina, seguirà invece la sorte
del Turani. Questi subì in carcere un trattamento durissimo ma non rivelò mai
nulla che riguardasse gli uomini e l’organizzazione. «Un giorno i tedeschi lo
fecero entrare nello stanzone dove erano rinchiusi alcuni giovani, accusati
d’aver avuto con lui qualche rapporto: era curvo come se non potesse più
reggersi, sotto gli occhi le guance erano livide, screpolate: trascinava una
gamba penosamente come se con le bastonature gliel’avessero spezzata. Gli
chiesero : ” E’ qui? ”. Rispose con fermezza senza guardare nessuno come
usatissimo ormai a ripetere no all’infinito e sempre no: ” No, no, non c’è ” ».
Dal giorno dell’arresto fino al 31 dicembre rimase al convitto Baroni nelle
mani della gendarmeria tedesca, mentre fu trasferito. L ’annuncio ufficiale
della condanna e dell'esecuzione della sentenza venne pubblicato da Bergamo
repubblicana il 20 gennaio 1944. Ecco il testo del comunicato: «L’Ufficio
stampa della Prefettura comunica: ” Tribunale di guerra del comando militare
germanico 1016 ha pronunciato la seguente sentenza: Il suddito italiano Cesare
Consonni, nato a Bergamo il 27 giugno 1922 e domiciliato nella stessa città,
viene condannato a morte. La causa: Consonni possedeva armi da fuoco,
munizioni, bombe a mano e materiale esplosivo e con ciò si è fatto colpevole
nello stesso tempo di complicità nell’aiuto ai partigiani. La sentenza è
passata in vigore. Il condannato è stato fucilato il 6 gennaio 1944 ” ». ( (Vajana,
op. cit., p. 51). Si vedano i suoi
ultimi messaggi alla famiglia in : Lettere dei condannati a morte della
Resistenza italiana, a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, Torino, 1952,
pp. 212-215.
Anche per il
Turani si veda la stessa opera, pp. 224. Riteniamo giusto dover rettificare
un’inesattezza apparsa nella biografia del Turani premessa alle lettere;
laddove sta scritto che egli fu catturato a « Cosa di Val Pigna », si deve
evidentemente leggere « a casa in via Pignolo ». Anche la data 15 novembre va
corretta in 19. (Relazione Gervasoni, p. 17. 64 nel carcere di Sant’Agata,
nella cella n. 2, dal gennaio al 5 febbraio, e nella cella n. 8
successivamente. Il processo si concluse con una sentenza scontata: la pena di
morte. Giuseppe Sporchia, di 36 anni, operaio, padre di tre bambine, era già
stato condannato a morte nell’udienza del 5 gennaio. Altri arrestati,
appartenenti alla stessa formazione o comunque con essa collegati, ebbero
condanne a pene varie: otto anni al prof. Ettore Vacha, che morirà in campo di
concentramento, pena di morte a Evaristo Locatelli, poi graziato; sei anni a
Roberto Pontiggia e a Umberto Esposito, tutti internati in Germania. Il Turani
inoltrò, senza risultato, la domanda di grazia e attese a lungo in carcere,
dopo la condanna a morte, l’esecuzione della sentenza che avvenne il 23 marzo
1944 al tramonto, nel cortile della caserma Seriate.
Alle ore 15
un ufficiale tedesco si era presentato a lui nel carcere di Sant’Agata
annunciandogli che la domanda di grazia era' stata respinta e che la sentenza
doveva essere eseguita. Una commossa descrizione delle ultime ore di vita del
Turani e dello Sporchia è dovuta alla penna del cappellano del carcere, Andrea
Spada, contenuta nel libro del Vajana, cui aggiungiamo una dichiarazione
inedita rilasciata dallo stesso sacerdote il 17 luglio 1945. Una delle lettere
scritte dal Turani in carcere e diretta a Sereno Locatelli Milesi è stata da
questi pubblicata nel suo libro Bergamo vecchia e nuova e la Bergamasca,
Bergamo, 1945, pp. 87 e ss. Anche queste
condanne e relative esecuzioni furono annunciate per mezzo della stampa e con
notevole ritardo.
L ’annuncio,
di cui di seguito diamo il testo, apparve infatti in Bergamo repubblicana il 5
aprile 1944: « L ’Ufficio stampa della Prefettura comunica: ” Dal Tribunale di
guerra del comando militare germanico di Bergamo furono condannati:
1) Il
meccanico Giuseppe Sporchia, causa proibito possesso d’armi da fuoco e
munizioni, a morte. La sentenza è stata eseguita il 23 marzo 1944 con
fucilazione;
2) L
’architetto Arturo Turani, causa proibito possesso di armi da fuoco, munizioni,
bombe a mano ed esplosivi in azione con i partigiani, a morte. La sentenza è
stata eseguita il 23 marzo 1944 con fucilazione ” ». (Op. cit., pp. 49-55. (34)
« Bergamo 17-7-45 — Io sottoscritto Sac. Andrea Spada, direttore del giornale «
L ’Eco di Bergamo, dichiaro di aver assistito personalmente come cappellano
delle carceri, alla morte di Arturo Turani di Bergamo abitante in via Pignolo
13. La morte è avvenuta il giorno 23
marzo 1944 alle ore 17,30 nell’interno della caserma Seriate in seguito a fucilazione ordinata dal
comando germanico. Nessun italiano,
eccetto il sottoscritto, era presente alla fucilazione. Potei assistere fino a
che il medico tedesco non ebbe constatato il decesso e non ebbe dato «
comunicazione di ciò al presidente del Tribunale germanico presente. Dopo di che venni invitato a prendere posto su
una macchina ed accompagnato alla mia abitazione. Avevo chiesto di poter
somministrare l’Estrema Unzione, ma il presidente mi pregò di non insistere. Nell’allontanarmi
potei vedere che la salma Inizi della Resistenza a Bergamo 65 Le spoglie dei
due fucilati non vennero consegnate alle famiglie, ma occultate e, solo dopo la
liberazione, vennero rintracciate in una fossa del cimitero di Lallio. Il 30
settembre 1945 ebbero luogo grandi e solenni funerali in città e grandissimo fu
il tributo popolare di riconoscenza ai due caduti. Due formazioni delle brigate
Matteotti furono intitolate ai due fucilati. Il retroscena degli arresti e
dell’offensiva poliziesca contro la formazione Turani si conobbe nel ’45 quando
fu arrestato colui che precise accuse indicarono come il delatore infiltratosi
nella banda. Costui venne arrestato nel luglio e giudicato dalla Corte d’assise
straordinaria il 22 dicembre 1945. Dichiarò di essere stato costretto dalle
torture a fare i nomi dei componenti della formazione, ma troppi occhi lo
avevano visto quando si accompagnava con le pattuglie degli occupanti durante
le perquisizioni operate dopo i primi arresti. Venne condannato a otto anni di
carcere e a tre di manicomio giudiziario, essendogli stata riconosciuta la
seminfermità mentale. Una condanna mite se si pensa alla spietata durezza dei
carnefici tedeschi; una sentenza, se si vuole, inspiegabile, per un uomo che,
purtroppo accettato e lasciato operare, condusse il regime di cui era arnese a
vincere una battaglia contro gli uomini che si battevano per la libertà.
Adolfo
Scalpelli
Tratto da RAV0068570_1961_62-65_27.pdf
(reteparri.it)
Fabio Paravisi
di Fabio Paravisi
Camminando sotto una sottile pioggia gelata i due costeggiavano il grande complesso in disarmo della Fiera con le sue centinaia di botteghe semiabbandonate, e da lì imboccarono il percorso lastricato del Sentierone che collegava i due borghi di Bergamo Bassa. (...)
Il seppellitore li vide arrivare da lontano e piantò il badile nel cumulo di terra a fianco della fossa che stava scavando. Poi con tutta calma li guardò avvicinarsi. «Lei è il seppellitore?», chiese Fainella. Quello guardò la fossa, poi riguardò Fainella e alzò le spalle. Ha ragione, si disse il carabiniere, domanda stupida. (...) «E dove...» fece per dire. L’altro indicò col manico del badile un edificio basso in fondo al camposanto, poi ricominciò a scavare nella terra fradicia. Il carabiniere e la guardia entrarono nella camera mortuaria. Dalla porta filtrava una luce livida e Fainella accese una lampada che trovò su uno scaffale. La fiammella illuminò poco alla volta la sagoma che si intravvedeva su un tavolo. Sembrava una grande bestia abbattuta. Anche da morto, Monticelli continuava a mostrare la forza che doveva avere avuto da vivo nelle dimensioni delle spalle, del torace e delle braccia con le maniche rimboccate. Un braccio penzolava dai bordi del tavolaccio. (...) Fainella si girò, appoggiandosi con un improvviso fiatone allo stipite della porta e maledicendosi: vuoi indagare su un omicidio e non riesci nemmeno a guardare la vittima.
«Cosa c’è, ti senti male?», gli chiese Pagnoncelli.
«In vita mia un cadavere non l’avevo visto mai, nemmeno quello di mio nonno che pure ci siamo tenuti in casa tre giorni prima del funerale».
«Beato te, io ho cominciato a sei anni a fare il chierichetto, e sai quanti che ne ho visti quando andavamo a fare la benedizione? Le prime volte me li sognavo di notte». (...) All’improvviso si girò con un gesto rabbioso e si affacciò alla porta, gridando: «Sotramòrt!». Il seppellitore alzò la testa dalla fossa, colto di sorpresa dall’urlo e, senza neppure sapere perché, si affrettò verso la camera mortuaria. Fu investito dalla furia della guardia: «Ma è così che fate il vostro mestiere? È così che si trattano i morti? E il giudice istruttore cos’ha detto?».
Colto di sorpresa dall’esplosione di rabbia di quello spaventapasseri che pochi minuti prima sembrava confondersi con i cipressi del vialetto, il Ghezzi allargò le braccia tentando una risposta. Ma non essendo abituato a parlare fece fatica a organizzare in modo sensato i tentativi che gli si affacciavano alla mente: «Ma io... ma loro... ma quando... ma pota io...».
«Ma pota un ostrega!», sbottò Pagnoncelli, abbrancando il seppellitore per un braccio e trascinandolo dentro, sotto lo sguardo sbigottito di Fainella che mai si sarebbe aspettato una simile esplosione di energia.
«E adesso ci aiutate! — ordinò Pagnoncelli — Spogliatelo!». L’altro tentò in qualche modo di articolare un’obiezione indicando la porta: «Ma loro... ma quelli là... ma io...».
Pagnoncelli ringhiò: «Guardate che sono dietro a stufarmi, e se mi stufo davvero sono capace di farvi fare la strada fino all’ufficio di Pubblica Sicurezza a pedate nel didietro». Anche nella stupefazione del momento, Fainella si guardò intorno chiedendosi: «Ma dietro dove?». Il Ghezzi si rassegnò, rimboccandosi le maniche e cominciando in modo spiccio la svestizione del cadavere. (...) Quando il torace fu liberato dai vestiti, il seppellitore lo indicò con una mano. Avrebbe voluto dire: «Ecco, siete contenti adesso?», ma nel dubbio di riuscire a mettere nell’ordine giusto le quattro parole si accontentò di srotolarsi le maniche. La guardia mise le mani sulle spalle del carabiniere e gentilmente lo girò verso il cadavere: «Allora? Cosa dici?».
«Un cadavere non l’avevo guardato mai, ma di gente abbottata quando stavo a Napoli me n’è capitata parecchia — mormorò Fainella —. Quelli sono pugni, queste qui bastonate, lì sono costole rotte. E nel collo — disse in un soffio indicando dei segni profondi — una coltellata, anzi due, pure tre». Il Ghezzi riprese il braccio penzolante e cercò di rimetterlo a fianco del cadavere. Vicino al polso c’era quella che sembrava una macchia di sangue coagulato, ma che da vicino somigliava più a pelle morta con sotto un grosso grumo.
«Il morto è morto», fece sarcastico il seppellitore. Il tono non piacque a Pagnoncelli, che reagì subito: «Al posto di fare lo spiritoso, cercate di aprirgli la mano». Borbottando «almeno un po’ di rispetto, io sono stato giù col Garibaldi», il Ghezzi obbedì. O almeno ci provò, perché le dita non volevano saperne di aprirsi. «Per forza, è qui da ieri sera». «Va bene, rivestitelo, vi faremo sapere», disse Fainella che non vedeva l’ora di uscire, e si avviò verso la porta. Il seppellitore aspettò di vedere le due divise allontanarsi, poi scandì con aria beffarda: «Comandi». Recuperò la pala e buttò un’occhiata al cadavere: «A te ti copro giù dopo, tanto non hai mica freddo», disse spegnendo il lume. Quando sbatté la porta il braccio del cadavere ricadde di lato e la mano si socchiuse.
25 ottobre 2018
Tratto dal "Corriere della Sera"
Bergamo scomparsa: le tre grandi epidemie
Era la principale via di comunicazione con la Città Vecchia.
A colpi di piccone, gli operai addetti ai lavori, non si limitarono ad aprire una breccia ma non indugiarono a costituire un proprio e vero squarcio nella cinta muraria, demolendo oltre al terrapieno e agli enormi pilastri che irrobustivano le mura, anche strutture militari che, si presume non avendo documentazione certa, potevano riferirsi a ricoveri per le truppe di cavalleria o di una "sortita.
La speculazione non mancò certamente, e quanto ne fossero a conoscenza i progettisti dell'opera non ci é dato di sapere. Il risultato é sotto gli occhi di tutti.
Una ferita in una struttura centenaria non inferta dal nemico in caso di attacco, scopo per cui era stata progettata e costruita dalla Repubblica di Venezia la cinta muraria di Bergamo, ma dalla mano amica dei suoi concittadini.
Nota: Le tre immagini si riferiscono, rispettivamente, al 1912, durante la demolizione del tratto di Mura ( ringrazio Dario Gamba );
Oggi che riapre dopo due mesi di lavori
https://youtu.be/MSjpLRO2NpU
La toponomastica e i ritrovamenti lasciano dunque intendere ad un iniziale insediamento ligure nella zona di Bergamo, senza una vera e propria fondazione né una struttura urbanistica.
Esattamente come è avvolto nell'ombra della storia la nascita e l'origine di Bergamo, così è solo ipotetica la collocazione di Barra nel colle della Fara e tutte le elucubrazioni che ne seguono (tra cui la sua data di fondazione preromana che il Belotti attesta intorno all'anno 1200 a.C.).
A livello cronologico, nella zona è identificabile soltanto la cultura fortemente indoeuropeizzata di Golasecca, nella prima Età del Ferro (900 a.C.) caratterizzata da nuclei tribali rurali di limitata estensione
E' oggetto di discussione inoltre se gli Etruschi siano i portatori della civiltà del Ferro; la cultura del ferro sembra infatti precedente agli Etruschi e nella nostra zona era già presente appunto con la cultura golasecchiana, esperienza eneolitica di area ligure.
La dodecapoli etrusca di cui parlano Tito Livio (scrittore romano 59 a.C. - 17 d.C.) e Diodoro (storico greco ca. 90 a.C. - 27 a.C.) sembra essere molto lontana dalla realtà storica dei ritrovamenti archeologici così come il processo di colonizzazione del popolo nel territorio.
La presenza etrusca a Bergamo non è quindi da intendere come una dominazione politica vera e propria, ed è da escludere l'ipotesi che fosse sede di un lucumone o comunque parte della dodecapoli.
Per quanto riguarda la presenza di costruzioni in pietra e dell'edificazione della prima cinta muraria dell'insediamento, anche tale ipotesi risulta inattendibili ad un suo confronto storico.
Se è vero infatti che l'abilità edilizia etrusca eccelse nelle costruzioni militari e nell'architettura funebre, mentre per questi utilizzavano le pietre, per le abitazioni cittadine usavano legno e terra (cotta o cruda); questo contrasta con la tesi del Belotti secondo cui gli Etruschi edificarono la prima Bergamo in pietra e la fortificarono (perché fortificare un piccolo borgo di interesse economico e politico limitato? Un borgo che lo stesso Plinio descrive "Etiamnum prodente se altius quam fortunatius situm").
Nel IV secolo a.C., secondo le testimonianze dello storico romano Tito Livio, il principe gallo Belloveso (fondatore di Milano), alleatosi con popolazioni insubri già stanziate nel territorio occupò il territorio ad ovest dell'Adda, conquistando l'insediamento di Parra fino all'arrivo, pochi anni più tardi, di alcune migliaia di galli Cenomani che attraversarono le Alpi guidati dal condottiero Elitovio (anche se da un punto di vista archeologico sono stati ritrovati reperti che fanno pensare ad insediamenti celtici già a partire dal V secolo a.C.).
Il loro rapporto con gli Etruschi presenti nel territorio sembra essere stato dapprima un rapporto di convivenza e collaborazione: gli Etruschi si servivano infatti dei Galli come intermediari nei commerci con l'Europa centrale.
Nonostante questo non escluda la possibilità di conflitti tra le due culture (e quindi la cacciata degli Etruschi da parte dei Galli invasori di cui parla Marco Giuniano Giustino, storico romano dell'epoca degli Antonini ), sembra che l'evento sia avvenuto in maniera diversa, meno drammatica e repentina, trattandosi più di un lento prevalere dell'elemento celtico divenuto definitivo con l'arrivo dei Senoni oltre il Po.
A proposito del nome dato dai Cenomani alla nostra città, l'etimologia del nome è ancora incerta; è messa in relazione con la voce gotico-germanica berg (monte) ed heim (casa,roccaforte) (considerato il fatto che i Cenomani erano di origine gallica orientale, o quasi germanica), mentre un'ulteriore ipotesi la riconduce alla divinità Bergimos, considerato dai Galli celtici e dai Cenomani come il dio delle alture.
Della civiltà cenomane non si sa quasi nulla, ma certo essi non erano agricoltori nomadi e nella loro religione doveva essere importante il culto di deità femminili, le Matres.
Stando agli scritti di Polibio (storico greco 206 a.C. - 124 a.C.), l'agricoltura presso i Cenomani era molto fiorente così come il potenziale demografico celtico, mentre l'organizzazione urbana era sostituita dal sistema di vita diecistico (per villaggi).
La città, poco dopo il 390 a.C. divenne teatro della sconfitta dei Galli Senoni (popolazione celtica stanziatasi sulla costa orientale dell'Italia) guidati da Brenno, reduci dal sacco di Roma.
Considerando la città un'ottima e difendibile roccaforte, punto strategico per il ripristino e l'organizzazione delle sue truppe, il condottiero gallo chiese la resa di Bergamo e la sua sottomissione.
È una storia
scoppiettante. Ad alto contenuto incendiario. Una storia dimenticata o forse
sconosciuta, ma pirotecnica. È la storia della polvere da sparo. Bergamo ne è
stata, per certi versi la capitale, nel Cinquecento. Le polveriere venete sono
lì a ricordarcelo. Ma non è dei cosiddetti «caselli della polvere» che vogliamo
parlare.
Di queste testimonianze del periodo della Serenissima si è occupato tempo addietro anche il giornalista Pino Capelli in una documentatissima pubblicazione per il Lions Club Bergamo Host edita nel 1987: il sodalizio si era fatto promotore del restauro delle stesse polveriere.
Nella pubblicazione si parla anche della «polverista», la fabbrica della polvere, già sede dello stabilimento tessile Reich poi trasformato in zona residenziale (via Casalino - via Martiri di Cefalonia).
Il raggio della nostra ricerca si restringe ora alla cosiddetta «polvere
nera», una miscela esplosiva composta da tre elementi essenziali: carbone
vegetale, zolfo e salnitro.
E la produzione di quest’ultimo era dovuta nientemeno che al «lavoro» delle
pecore, i cui allevamenti prosperavano tanto nelle valli quando in pianura e
persino a Bergamo. Ovini già definiti da raccolte e trattati del Settecento le
«pecore del salnitro».
Ma cosa c’entra questo aspetto diremmo agreste, bucolico, con la pericolosa
polvere che alimentava pistole, fucili e cannoni durante la Serenissima, ma
anche molto tempo prima?
Lo scopriremo più avanti. Va anzitutto ricordato che la polvere da sparo,
in origine chiamata «polvere pirica» o «polvere nera», venne utilizzata
nell’antichità per scopi incendiari, ma anche per singolari giochi pirotecnici.
Il suo utilizzo come propellente per cartucce e munizioni delle armi da fuoco
iniziò nel ’300 e per oltre cinque secoli rimase l’unico esplosivo utilizzato.
La polvere nera è di certo il più antico esplosivo deflagrante che non ha
bisogno di ossigeno esterno, in quanto il salnitro è un comburente. Si dice che
la sua invenzione spetti (manco a dirlo) ai cinesi nel IX secolo, che
iniziarono a usarla per scopi offensivi dall’XI secolo. Alcuni storici del XVI
secolo nelle loro pubblicazioni parlano del salnitro come «sale della China».
Per costoro la polvere era ottenuta miscelando vari elementi già prima dell’Era
Cristiana, divulgati ai popoli mongoli e da qui agli arabi e ai greci del Basso
Impero. Le Crociate in Oriente permisero di far conoscere la polvere anche ad
altre genti.
Verso la fine del 1500 la composizione ottimale della polvere era così
definita nei testi dell’epoca: «Sei parti di salnitro, una di carbon dolce, una
di zolfo».
Per carbone e zolfo, importati direttamente dai luoghi di produzione, non c’erano particolari problemi di approvvigionamento. Problemi invece erano legati al salnitro. Ma per fortuna - per tornare alla domanda iniziale - c’erano le pecore. Infatti in natura il salnitro si può trovare sotto forma di efflorescenze in ambienti umidi, cantine, grotte, stalle, dove è possibile l’azione dei batteri nitrificanti. Ma Venezia non aveva grandi depositi naturali dove ricavare l’elemento, così dovette escogitare un altro sistema. Bergamo gli venne in soccorso con le nitriere. In alcuni capannoni («tezzoni») si raccoglieva la terra ricca di rifiuti organici (in genere escrementi di greggi di pecore) che veniva diluita con acqua, fatta decantare in appositi impianti con l’uso di caldaie; quindi si ricavava il salnitro grezzo.
I tre componenti dovevano poi essere ridotti finemente in polvere, con
macine e mortai azionati da cavalli o a mano, e mescolati insieme; la polvere
bagnata, passata con appositi setacci (crivelli) assumeva infine l’aspetto di
piccoli grani, e a seconda dello spessore detta grossa o fina. Proprio così.
Dall’urina delle pecore si produceva il salnitro.
«A Bergamo si incominciò la costruzione del tezzone del salnitro nel 1573 –
scrive Capellini – ma i lavori vennero terminati solo nel 1588. L’edificio si
trovava nel Prato di Sant’Alessandro, a non molta distanza dall’Ospedale
Maggiore o di San Marco. L’area occupata era quella oggi compresa tra la banca
Popolare di Bergamo e l’incrocio fra viale Vittorio Emanuele e via Tasca».
Il tezzone al Prato di S.Alessandro in uso fino all’Ottocento. L’ingresso
era dominato dal leone di San Marco e dagli stemmi del doge, del provveditore
alle artiglierie, dei rettori. Altre tezze furono costruite a Osio Sotto e a
Spirano.
Nella Bergamsaca si giunse fino a otto «tezzoni», ognuno dei quali doveva
contenere un gregge di almeno 200 pecore. Altre fonti rilevano che dove oggi si
trova la Borsa Merci nel Cinquecento, si trovava un «tezzone» del salnitro, un
grande capannone dove venivano appunto ricoverati gli animali. Ignari di come
persino dai loro bisogni fisiologici si potesse ricavare una ricchezza
esplosiva.
Emanuele Roncalli
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