Storie della città

Sarebbe opportuno ricordare.

13 marzo 1979, Bergamo: Guerriglia proletaria uccide il brigadiere Gurrieri.




L’uccisione dell’appuntato dei CC, Giuseppe Gurrieri, avvenuta martedì 13 marzo alle ore 19,20 in un cortiletto di Bergamo alta antistante lo studio del dottor Gualteroni, medico del carcere cittadino, è stata rivendicata nella notte scorsa dal gruppo «Guerriglia proletaria» con il seguente testo:

«Senta, qui è Guerriglia. Un nostro nucleo armato ha giustiziato questa sera un carabiniere nel corso di un’azione che era tesa a colpire l’aguzzino di via Gleno (la via del carcere). n.d.r.) dottor Gualteroni. Tenga bene in mente: Guerriglia proletaria. Un nostro nucleo armato ha giustiziato un appuntato dei carabinieri che aveva opposto resistenza armata durante l’azione. Faremo avere un comunicato domani».

Con la cronaca di quel tempo cerchiamo di ricostruire la dinamica attraverso i numerosi testimoni oculari presenti al fatto.

 

I terroristi scelgono per l’azione l’ora di punta delle visite. La sala d’attesa è stracolma, al punto che alcune persone devono attendere il turno nel cortiletto su cui si affaccia la porta dello studio. Tra queste c’è l’appuntato Gurrieri che accompagna il figlio tredicenne da alcuni giorni febbricitante. Il carabiniere è in divisa, uscito da poco dall’ufficio del comando di Bergamo, dove svolgeva mansioni di dattilografo.

Alle 19,20 giungono nel cortile due uomini, giovani, armati, a viso coperto. La presenza di un carabiniere è inattesa e provoca un attimo d’incertezza, poi uno dei due giovani si avvicina all’appuntato e lo tiene sotto il tiro della pistola, intimandogli di entrare nello studio del medico. L’appuntato Gurrieri invece resta qualche secondo fermo, quindi sposta lateralmente il figlio e cerca di afferrare il braccio del terrorista. C’è una breve colluttazione, poi i due si divincolano e il giovane spara cinque colpi. Dopo di che la fuga.

Immediatamente dopo sono cominciati ! fermi, le perquisizioni domiciliari, e personali. Moltissimi giovani faccia al muro, soprattutto nelle vie e nelle piazze del centro storico. La città vecchia è stata circondata e isolata da polizia e carabinieri. Per tutte le ore che hanno preceduto la rivendicazione, la pista seguita è stata quella definita da carabinieri e polizia «dei drogati di città alta» un modo per dare una lezione ai giovani e ai compagni che hanno fatto del centro storico il loro punto di ritrovo. Molti sono stati quindi i fermati. Tutti però dopo i primi accertamenti e interrogatori sono stati rilasciati.

Fin qui la cronaca di “parte”  di Lotta continua, il 15 marzo 1979.

La telefonata di rivendicazione è opera di Maurizio Lombino, “portavoce” dell’Autonomia bergamasca.

Arrestato per una rapina, si pente. Tra le tante storie raccontate sull’area politica e le reti militari espressione dei vari comitati comunisti, tira fuori anche il nome di “Brunella” come basista dell’omicidio Ramelli.

Il suo arresto, rientrata dall’estero e le sue confessioni, travolgeranno il castello di menzogne diffuso da Avanguardia operaia per proteggere gli assassini e la versione partigiana di Lotta Continua.

Sono le accuse di Lombino, essendosi dissociato l’altro componente del commando, Enea Guarinoni, ben presto arrestato, a portare alla condanna all’ergastolo di Narciso Manenti, rifugiato tempestivamente a Parigi.

Nel 1987 la Francia rifiutò l’estradizione ma, successivamente, fu inserito nell’elenco dei latitanti di cui si richiedeva la consegna, insieme a Pietrostefani e a un’altra diecina tra i quali il Manenti, il pistolero.


-------------------------------------




INIZI DELLA RESISTENZA A BERGAMO

Testimonianza di Adolfo Scalpelli

A Bergamo, la Resistenza ha avuto inizio con un’azione pubblica, una manifestazione popolare nel cuore della città. L’annuncio dell’armistizio stipulato tra il governo italiano e gli Alleati era stato diffuso da poco tempo che già la popolazione, dominata dall’incertezza, affluiva davanti alla Torre dei Caduti della guerra del 1915, quasi a volersi riallacciare alla tradizione, interrotta dal fascismo, della lotta contro l’invasore tedesco. Da quella torre parlarono gli uomini che piu si erano distinti nel periodo del governo Badoglio: tra gli altri Ernesto Rossi.

Non furono pronunciati discorsi rivoluzionari e nemmeno si udirono incitamenti alla resistenza; dominò soltanto nella manifestazione l’atmosfera di preoccupazione che nasce di fronte ad avvenimenti di cui sono oscuri gli sbocchi e le prospettive. Furono discorsi antifascisti che richiamavano alle responsabilità del momento. Era però evidente come nessuno accettasse l’idea che l’atto del governo potesse veramente por fine alla guerra. Infatti, mentre sulla piazza principale della città si svolgeva il comizio, nell’edificio della prefettura iniziavano concitati colloqui, diretti ad ottenere dal governo precise dichiarazioni e ad indurre il comando di presidio a consegnare le armi, se non direttamente alla popolazione, ad un organismo di indubbia fede patriottica quale poteva essere considerata l’Associazione degli ex-combattenti.

Seguire con ordine questi avvenimenti è importante per comprendere le ragioni della nascita della prima organizzazione clandestina formatasi in città senza l’aiuto dei partiti, che, d’altronde, avevano ripreso una stentata vita semilegale solo durante i quarantacinque giorni del governo Badoglio. (Cfr. Gaetano Salvemini, Lettere sulla politica italiana del ’44-’45 (un carteggio inedito a cura di Ernesto Rossi) in Ponte, luglio 1961, p. 10 2 1): « Dopo il 25 luglio ’43, io e i miei amici abbiamo subito proclamato la necessità della guerra alla Germania, pur continuando a far propaganda contro il re e Badoglio. La sera dell’armistizio io parlai dalla Torre dei Caduti di Bergamo, riaffermando la mia fede repubblicana, ma dicendo che in quel momento bisognava ubbidire a Badoglio. Non c’era altro da fare ». (Lettera di Ernesto Rossi a Salvemini del  marzo 1945 da Ginevra).

Come è noto l’armistizio colse di sorpresa la popolazione dei territori non occupati dagli eserciti alleati, anche se, dopo il 25 luglio, da ogni parte si sperava che l’Italia ponesse fine alla guerra e denunciasse l’alleanza con la Germania, Inoltre il fatto gravissimo del governo che, fuggendo, aveva lasciato senza direttiva alcuna l’esercito, provocò lo sbandamento pressoché totale delle truppe e, fin dalle prime ore della notte tra l’8 e il 9 settembre, quegli episodi di fuga che già sono stati descritti e che a Bergamo ebbero caratteristiche analoghe a quelle delle altre città.

I quadri dirigenti delle formazioni politiche, che avevano potuto costituirsi entro gli esigui margini di libertà lasciati loro dal governo Badoglio, furono invece molto attivi. Come abbiamo detto, infatti, mentre sulla piazza avveniva una significativa manifestazione antifascista, in prefettura si riunivano vari esponenti di vecchie e nuove correnti per concretare un’azione di difesa delle posizioni raggiunte dall’Italia; in sostanza, per mantenere fermo l’armistizio. I giornali apparsi in quei giorni rispecchiano gli avvenimenti solo attraverso le comunicazioni ufficiali, senza cronache e senza commenti; per questa ragione oggi, forse ancora prima di fare la storia, è necessario ricostruire la cronaca di quelle ore. Un primo documento riguarda l’appello lanciato dall’Asso' dazione degli ex-Combattenti per la formazione di reparti armati, formulato nella notte del 9 settembre tra l’incalzare degli avvenimenti, quando ormai appariva chiaro che l’esercito si stava dissolvendo e che sarebbe stato di sempre minor aiuto alla difesa della città, e mentre giungevano notizie, non tutte esatte, dell’approssimarsi delle forze tedesche.

Dice l’appello nel suo testo integrale: « La Federazione provinciale dell’Associazione nazionale ex 'Combattenti si rivolge ai cittadini, anche non combattenti, e specialmente alla gioventù studiosa, perché presentino domanda di arruolamento volontario nelle forze armate allo scopo di assicurare l’eventuale difesa del Paese nel momento delicato che esso attraversa. Le domande vanno presentate agli uffici della Federazione in via Torquato Tasso e dovranno con' tenere nome, cognome, paternità, data di nascita, grado militare già eventualmente rivestito, arma, luogo di residenza e indirizzo ». Benché, in contrasto con l’atteggiamento dilatorio ed evasivo delle autorità, sostanzialmente impreparate e colte di sorpresa dagli avvenimenti, gli autori dell’appello fossero consci che la situazione poteva richiedere l’intervento volontario del popolo in armi, il documento è tuttavia gravemente limitativo verso le forze che avrebbero dovuto intervenire ormai direttamente nella battaglia.

Quell’inciso diretto alla « gioventù studiosa », che pare escludere le forze del lavoro e soprattutto l’unione delle une alle altre, è l’indice, il termometro dell’ambiente in cui l’appello è stato concepito. Si tratta di un ambiente monarchico-liberale che, pur rinnovato dopo il 25 luglio, non afferra nella sua piena realtà Resistenza di possibilità nuove maturate in Italia nel fronte della lotta antifascista : non afferra in sostanza che proprio nelle classi popolari, dove più si è sofferto per il fascismo e per la guerra, più è maturato il senso dell’opposizione e ' dell’opposizione armata.

La decisione dell’Associazione degli ex-Combattenti era stata presa nel corso della riunione tenutasi presso la prefettura e alla quale si è accennato. La riunione si era svolta nelle ore serali dell’8 settembre e vi erano convenuti il comandante del presidio militare, colonnello Poli, l’avv. on. Bortolo Belotti, il presidente degli ex combattenti prof. Bruni, i commissari dell’Unione lavoratori della industria Piccinini, Zambianchi e Pezzini, l’avv. Vajana, il dott. Battaggion, il rag. Tulli  e il dott. Tolazzi. In quella sede furono approvate, per essere successivamente rese pubbliche, tre disposizioni: « ciascuno attenda, come soldato, al suo posto di lavoro ed occorrendo' lo riprenda immediatamente, nelle officine, nei campi e negli uffici.  

Nel novembre 1943, a conoscenza di un ordine di cattura emanato nei suoi confronti decise di riparare in Svizzera, dove morì il 25 luglio 1944 a Sovico.  Autore di un lavoro sulla resistenza bergamasca: Alfonso Vajana, Bergamo nel ventennio e nella resistenza, Bergamo, 1957. Diresse col Battaggion la Voce di Bergamo, nel periodo del governo Badoglio e il Giornale del popolo quando, dopo la liberazione, divenne organo del CLN .  Ettore Tulli, comunista, per le azioni commesse durante i giorni dell’armistizio fu attivamente ricercato da fascisti e tedeschi. Scampato alla cattura per alcuni mesi si diede alla attiva organizzazione di bande armate in montagna, finche venne catturato alle porte della città da uno dei peggiori seviziatori bergamaschi, nella mattinata del 17 dicembre. Condannato a morte dal tribunale tedesco, ebbe la pena commutata in 12 anni di lavori forzati in Germania. Tornò in Italia a liberazione avvenuta.  

La Voce di Bergamo, 9 settembre 1943, sotto il titolo: « Bergamo per la difesa del Paese ». « l’Associazione combattenti raccoglierà domande di arruolamento volontario e in ogni caso resta pronta a disposizione del comando di presidio per ogni eventuale necessità; « ciascuno osservi e faccia osservare con volonterosa disciplina le disposizioni in vigore relative all’attuale stato di assedio, nonché ogni altra disposizione che l’Autorità crederà di impartire ».

La sostanza di queste disposizioni, aggiunte ad un appello alla resistenza armata che resta confinato sul piano astratto e velleitario, è un’affermazione di inutile legalitarismo fatta nel momento in cui tutte le sovrastrutture dello Stato cadono in pezzi sotto una nuova e più violenta forma di oppressione tedesca validamente puntellata dal fascismo italiano, che riappare rapidamente in divisa. Quelle stesse autorità civili e militari che richiamano alla legalità, che permettono gli arruolamenti volontari con tanto di domanda scritta, che giungono a promettere l’istituzione di una guardia nazionale civica, non permetteranno che alla popolazione sia distribuito un solo fucile. Le prime armi che il popolo si conquista con una manifestazione di rivolta contro le autorità fedeli al governo Badoglio appartengono al drappello che presidia la prefettura: alcuni dei soldati vengono disarmati, altri consegnano spontaneamente le armi, né viene presa in considerazione l’opposizione dell’ufficiale comandante. Una ventina di fucili dll’armeria passa così nelle mani di un gruppo che formerà, se si vuole, la prima squadra partigiana apparsa in città. Non molte ore dopo, alle ore 16 del 9 settembre, i tedeschi sono in città. Senza bisogno di procedere ad un’azione massiccia o di spiegare larghe forze a dimostrazione della loro potenza, i tedeschi, che peraltro avevano sempre presidiato l’aeroporto militare di Orio al Serio a pochissimi chilometri dalla città, si limitano ad una presenza.  I comandi locali delle Forze armate si erano dissolti e non fu possibile nemmeno al commissario comunale della città, Locatelli Milesi, prendere contatto con essi. Per rendersi conto dell’atmosfera di dramma creatasi nelle caserme bergamasche si vedano le efficaci pagine di diario lasciateci da Sereno Locatelli MIlesi, (Nove giorni a Palazzo Frizzoni, 8-16 settembre 1943, Bergamo, 1945* pp* 8^9, relazione Tulli, p. 2.  Emma Coggiola. Umili e frammentarie pagine della Resistenza in Bergamo, Bergamo, 1952, p. 3. occupazione psicologica), inviando nel centro carri armati ed appostando, ai principali incroci, motocarrozzette fornite di mitragliatrici.

Ma sarà proprio questa dimostrazione provocatoria e brutale ad infondere maggior vigore alla protesta e alla rivolta. Mentre i tedeschi entravano in città e procedevano all’occupazione delle caserme e dei punti nevralgici, per altra strada gli esponenti dell’antifascismo, le spalle gravate da anni di silenzio, di confino o di carcere, dovevano lasciare le loro case e cercare rifugio sulle montagne o nelle città vicine o in abitazioni di amici, per riprendere, sotto varie forme ma in modo più vasto e spiegato, la battaglia antifascista durata vent’anni. I giovani anonimi invece, non ancora compromessi, gli stessi che avevano preso parte alle manifestazioni dell’8 e del 9 settembre possono restare in città e dare il via ad un nuovo sistema di vita: se la loro giornata avrà apparentemente il solito ritmo, le medesime preoccupazioni e gli stessi problemi, in realtà il normale svolgersi della loro attività acquisterà anche un aspetto clandestino.

I primi giovani ad avere un’attività clandestina sono coloro che hanno preso parte al disarmo del drappello della prefettura: la maggioranza di loro, non collegata ancora all’organizzazione di Giustizia e Libertà ed al partito comunista, dà vita alla prima formazione di lotta clandestina onerante in forma organizzata nell’interno della città. Essa sorgerà in funzione del 9 settembre e si chiamerà: banda Turani. Arturo Turani, architetto, fu socialista in gioventù. Non risulta che, durante il periodo della dominazione fascista precedente il 25 luglio 1943, abbia preso parte ad una qualche attività di natura politica « impegnata « con i partiti di sinistra. Né è possibile provare la sua partecipazione o la sua presenza attiva nelle file antifasciste dopo il 25 luglio. Questo fatto tanto più è in contrasto con la posizione di primo piano da lui assunta dopo l’8 settembre quando si consideri che il raggruppamento del Turani fino alla sua morte seppe catalizzare e assorbire gran parte dei gruppi antifascisti formatisi spontaneamente all’annuncio dell’occupazione tedesca. Turani riesce a fare della sua formazione il centro propulsore di una sempre più vasta attività antifascista sul piano militare e a convogliare nelle sue file le forze antifasciste della borghesia cittadina per una batta­ La sua influenza è netta, precisa, documentabile. In una relazione del giugno 1945, stesa da Gianni Gervasoni, che fu molto vicino alla banda Turani, si possono facilmente rintracciare dati che testimoniano di tale influenza (io). Dalla relazione si apprende, ad esempio, come sia stato assorbito un gruppo Magni e le forze ridistribuite secondo le necessità dell’organizzazione e lo stesso Gervasoni, con i suoi uomini soprattutto studenti, aggregato alla banda. E, ancora più significativo, lo stretto rapporto stabilitosi fra l’attività del Turani e il lavoro del prof. Vacha, il quale, già capitano dei carabinieri, operò senza incertezza per la costituzione di una catena di staffette capace di accompagnare dalla città al confine, fino all’espatrio, quei carabinieri che non intendevano restare nell’arma agli ordini del governo di Salò.

In breve tempo la formazione divenne una forte organizzazione che ingrossava continuamente le sue file e poteva anche contare su elementi che fin dai primi giorni dell’occupazione si erano fatti un’esperienza in diversi settori della cospirazione e della lotta. L’influenza della banda Turani, estesasi anche alla periferia della città e in provincia, permise la formazione di una serie di distaccamenti in località importanti sia della città che delle valli bergamasche. L’azione che certo impose maggiormente la banda Turani all’attenzione dei gruppi isolati fu il rapido colpo, condotto con precisione militare, contro il distretto di Bergamo, quasi sotto gli occhi dei tedeschi che stavano giungendo per occuparlo, e che permise al Turani di distruggere documenti, impossessarsi di mappe di una certa importanza e asportare una notevole quantità di armi e di munizioni utilissime per l’equipaggiamento delle squadre d’azione e dei primi distaccamenti di montagna. Il gruppo che condusse l’assalto non subì perdite di alcun genere, né fu possibile ai fascisti stabilire quali persone vi avessero preso parte.  

La struttura interna della formazione del Turani possiede tutte le caratteristiche di un’associazione di persone unite fra loro da  Il termine di banda Turani, è nato immediatamente dopo che la formazione fu costretta allo scioglimento e dopo di allora tale denominazione è rimasta.  (Relazione Gervasoni, p. 2.  lbid., p. 4).

L’organizzazione porta a termine operazioni militari concrete e positive, azioni clamorose di propaganda, ma trascura, anche per l’assenza di una tradizione cospirativa, un’opera di reclutamento lento e guardingo e di mimetizzazione. Con troppa fiducia si accettano e si immettono nell’organizzazione i nuovi elementi, cosicché oltre ai giovani, mossi dall’ardente desiderio della lotta, entrano anche le spie, che come vedremo giocheranno un ruolo importante nella rovina della banda. Esse saranno in grado di penetrare fin nel cuore del comando e di apprendere decisioni e direttive che avrebbero dovuto essere tenute massimamente segrete. Sarebbe assurdo, d’altra parte, pretendere che il Turani, con pochi collaboratori, potesse veramente tenere nelle sue mani le fila di una formazione che in poche settimane aveva raggiunto il numero di 236 componenti, senza decentrare tali forze con la costituzione di comandi periferici. Ma se, effettivamente, furono costituiti distaccamenti che andavano dalla periferia cittadina alla montagna, è anche vero che tutti facevano capo direttamente al Turani il quale non solo cominciava ad essere conosciuto da tutti i comandanti di distaccamento, ma permetteva anche a qualsiasi persona della banda di farsi ammettere, quando volesse, alla sua presenza. In sostanza le regole ferree, in uso presso i partiti che avevano continuato in clandestinità la loro lotta, allo scopo di tenere segreta la rete cospirativa, erano violate a tutto detrimento delle possibilità di attacchi di sorpresa contro il nemico.

Tuttavia la conoscenza delle località in cui gli aderenti operavano era tale da rendere possibile di recare localmente, grazie alla suddivisione della struttura in numerosi distaccamenti, continue offensive contro fascisti e nazisti. Benché agli effetti della battaglia quotidiana abbiano avuto una maggior importanza ed efficienza i distaccamenti cittadini, va compilato per l’Ufficio Patrioti di Bergamo in data 3 gennaio 1946.  

Il distaccamento principale della città era direttamente comandato dal Turani, mentre quelli periferici e dei comuni limitrofi erano così distribuiti: Alzano Lombardo, Vincenzo Breda; Nembro, Enza Barozzi; Longuelo, Giuseppe Magni; Lallio, Marino Mazzucconi. Le formazioni di montagna erano le seguenti: Fiobbio, Gabriele Castellini; Rovetta, Roberto Pontiggia; S. Brigida, Luigi Medolago. Inizi della Resistenza a Bergamo peraltro considerato anche lo sforzo compiuto dalla banda, e in particolare dal Turani, per organizzare alcune formazioni di montagna il cui compito non fosse esclusivamente quello di far espatriare i prigionieri e i ricercati dalla polizia, ma che fossero altresì orientate alla guerriglia e alla lotta armata in stretta collaborazione con le formazioni cittadine e le organizzazioni clandestine dei centri abitati. L’iniziativa presa dalla formazione in quest’ultimo senso ha un notevole rilievo, riguardo al periodo in cui si colloca, quando ancora, sempre se si escludano il partito comunista e il partito d’azione, le altre formazioni pensavano esclusivamente a forme quasi caritatevoli di aiuto ad ex prigionieri, consistenti nella fornitura di cibo e di vestiti, attività peraltro non estranee neppure all’organizzazione del Turani.

Alle formazioni di montagna del Turani mancò però il tempo di provare nella pratica dell’attacco armato la loro efficienza organizzativa giacche ai primi di dicembre esse subirono il contraccolpo degli arresti effettuati in città e in parte furono costrette a sciogliersi, destino comune ad alcune delle organizzazioni sorte nei primi mesi dell’occupazione nazista. Va però sottolineato il fatto importante che, in alcune di tali formazioni, come in quella di Rovetta, si è raggiunto quasi un punto di saldatura fra organizzazioni di pianura e organizzazioni di montagna con una pianificazione degli attacchi al nemico. Mentre, grazie all’apporto dei documenti rintracciati, risulta abbastanza agevole ricostruire le condizioni interne del lavoro della formazione, molto meno facile è indagare sui rapporti intercorsi fra la banda Turani e le organizzazioni nazionali e provinciali della Resistenza. E’ ovvio che gli organismi provinciali di emanazione nazionale, operando per l’unificazione della Resistenza, intendessero stabilire contatti permanenti, politici ed operativi, con una formazione che si era già notevolmente distinta nella lotta antitedesca. Il CLN provinciale invia così due suoi delegati che prendono contatto con il Turani: nel mese di ottobre si hanno due incontri, stranamente, senza risultato alcuno.

Testimonianza di Noradino Torricelli: « A metà ottobre [Turani] annunciava una visita alla formazione di Rovetta e di aver raggiunto un accordo con Milano per un più fattivo aiuto alle file ingrossatesi. Ma le armi erano sempre poche. Turani venne lassù e mi propose un attacco al Teatro Nuovo in occasione di una riunione di nazifascisti, quale prima dimostrazione che i partigiani erano organizzati e per approfittare dello scompiglio onde prelevare armi, munizioni, viveri, indumenti e danaro ».

Nel corso dello stesso mese vengono anche interrotte le trattative che non saranno più riprese. E’ difficile stabilire quali siano state le cause che hanno portato alla rottura dei rapporti fra le due parti: gli unici accenni al fatto li ritroviamo nella citata relazione del Gervasoni: « Purtroppo -scrive- due approcci del capitano Turani con un noto professionista cittadino e con una personalità che rimase più tardi vittima della sua operosità antinazista, benché fatti anche a mio nome, non sortirono buon effetto. Fu accolto con diffidenza, si ebbe forse timore di compromettersi, si preferì lasciarlo solo a continuare nel rischio sempre crescente. Ma proseguimmo con fede immutata, trovando qualche aiuto economico occasionale e sborsando nuovamente di tasca nostra ». Intorno alle ragioni della mancata intesa tra CLN e formazione Turani non si possono avanzare che congetture, la prima delle quali potrebbe essere che probabilmente i delegati del CLN si siano resi conto della struttura dell’organizzazione ed abbiano reputato che un’attività così scoperta avrebbe potuto portare pericolose conseguenze per tutto il movimento. Può anche darsi che le difficoltà siano sorte quando si è trattato di fissare le rispettive posizioni e funzioni e che ogni possibilità di accordo sia naufragata di fronte alla rivendicazione di una gelosa autonomia, male intesa forse da parte di alcuni elementi della formazione Turani.

Questa supposizione ci viene suggerita dall’insistenza con la quale gli esponenti più vicini al Turani accentuano l’assenza assoluta di colore politico della formazione. « Poiché i gruppi Turani non avevano alcun colore politico, ma desideravano solo la concentrazione e l’aiuto sollecito e generoso di tutti, ci adoprammo per una chiarificazione in tal senso, nel senso cioè di un’intesa con il CLN ». « Nonostante la sua viva fede politica e la sua non rinnegata attività giovanile in seno al partito socialista, ora non aveva altra mira se non la liberazione d’Italia ». « ... noi ammiravamo nell’architetto l’uomo che aveva saputo sacrificare le sue idee per il bene dell’Italia (Relazione Gervasoni, p. n .  Ibid., p. i l .  Relazione anonima diretta al C. V . L., p. i.) avevamo solo fiducia in lui ». « Unica idea al disopra di ogni tendenza dei partiti: l’Italia libera dal giogo nazifascista ». In queste affermazioni vi è buona parte dell’atteggiamento di apartitismo sostenuto da formazioni che, respingendo accordi unitari sulla base di un’unica piattaforma di lotta, preferirono restringere le loro stesse possibilità di espansione pur di conservare un’assurda forma di autonomia che poteva soltanto indebolire la formazione stessa e l’intero movimento. D’altronde la banda Turani manterrà sempre questa sua posizione, determinata dalle origini sociali della maggioranza che la compone. Abbiamo già visto quale tipo di contatti il Turani, subito dopo l’armistizio, ebbe in città e quali gruppi subirono maggiormente la sua influenza: gruppi di studenti e uomini isolati, di origine piccolo borghese, impiegati nel commercio o in aziende locali e noti in città.

La maggioranza di giovani studenti che facevano parte del raggruppamento era formata da coloro che per primi avevano risposto all’appello lanciato l’8 settembre dall’Associazione degli ex Combattenti, di cui abbiamo parlato. Il comando della formazione, che naturalmente subisce le influenze degli orientamenti borghesi, non sfugge alla tentazione comune alle brigate autonome di affidare il comando militare ad un ufficiale di carriera. Ecco la testimonianza del Gervasoni: « Il problema militare e dell’organizzazione sistematica della provincia urgeva più che mai. Quasi da ogni angolo e paese pervenivano notizie di movimenti e di gruppi in attesa di collegamento, di soccorsi, di ordini, di inquadramento militare. Si facevano parecchi nomi di possibili capi, ma la scelta in città non era facile. Si desiderava altresì un alto ufficiale di carriera e da Milano era partita più di una proposta e di una promessa.

Alcuni nomi proposti non erano sembrati di sicura garanzia. Alla fine si pensò ad una commissione provvisoria di tre ufficiali di complemento ». Diversa personalità era quella del commissario della formazione: Moretti. Era un comunista, molto giovane, ma con già sulle spalle una dura esperienza rivoluzionaria. Da una testimonianza di Vincenzo Breda (vice comandante della formazione) contenuta in Relazione Gervasoni, (p. 18.  Testimonianza Torricelli, cit., in Relazione Gervasoni, p. 5.  Relazione Gervasoni, p. 7.)  Adolfo Scalpelli sedicenne da Bergamo era riuscito a raggiungere in Francia gli organi di arruolamento volontario per le brigate antifasciste combattenti in Spagna e, dopo la guerra, aveva vissuto clandestinamente in Francia a contatto con i circoli più avanzati del fuoruscitismo italiano. Il Moretti portò indubbiamente fra le file dell’organizzazione del Turani il frutto della sua esperienza di lotta antifascista e di cospirazione clandestina, fino a che, seguendo anch’egli la sorte comune, fu arrestato e rinchiuso nella sede del Convitto Paleocapa, meglio noto col nome di collegio Baroni, trasformato in carcere dalla Gestapo. Di qui if Moretti riuscirà a fuggire con il Castellini, comandante del distaccamento di Fiobbio.

La loro fuga ebbe fasi romanzesche. Prelevati da una cella per essere condotti all’interrogatorio, i due riuscirono a distrarre la scorta e, trovata una finestra senza inferriate, vi si gettarono, saltando da un secondo piano. Il Moretti rimase incolume, mentre il Castellini si spezzò una gamba: ma l’amico se lo caricò sulle spalle e lo portò in salvo benché la Gestapo, rinforzata da altre squadre di polizia, avesse già dato inizio alla caccia. I due ripresero la lotta, il Moretti quasi sempre a Milano con incarichi importanti e il Castellini nella divisione partigiana Valdossola. La brigata del. Turani, principalmente a causa della fragilità della sua struttura, ebbe breve vita, ma spericolata, febbrile, gloriosa. Numerose sono le azioni di attacco effettuate nel giro di poche settimane, il tempo della sua esistenza. Nel questionario compilato dalle brigate dopo la liberazione, alcune di queste azioni sono elencate in forma scheletrica, senza fornire particolari; nè ricche descrizioni è possibile avere da altri documenti. Tuttavia tenendo anche conto delle difficoltà in cui si dibattevano le formazioni all’indomani dell’occupazione tedesca e perciò nei primi giorni della loro esistenza, è importante sottolineare la continuità degli attacchi portati contro obiettivi militari di grande interesse per i tedeschi, come il campo d’aviazione di Orio al Serio.

« Avevamo con noi a contatto continuo un giovane rappresentante d'un forte partito di massa, che ci seguiva, che si adoperava nelle missioni più rischiose e perseguiva l’intento di conseguire la concentrazione dei partiti in definitivo e operoso comitato... ». Inizi della Resistenza a Bergamo quasi alla periferia della città e perciò a pochissimi chilometri dal centro e che ospitava in gran parte velivoli da caccia, pur non rappresentando una base aerea di particolare importanza, presentava però molto interesse come deposito di materiale di ricambio, di munizioni e di carburante. Contro gli impianti di questo aeroporto, nel settembre e nell’ottobre del 1943, si è accanita l’opera di sabotaggio delle squadre della banda Turani, al comando di Giuseppe Sporchia, il quale era riuscito a ricostruire la pianta completa del campo, copia della quale passò anche, a quanto pare, nelle mani degli alleati. La notizia ci è confermata dal Gervasoni. Il 4 ottobre viene intrapresa un’azione, e non è la prima, contro la villa Pesenti di Alzano Lombardo, occupata da forze tedesche, per ricuperare ingenti quantità di benzina già appartenenti all’esercito italiano. Il 19 ottobre viene sferrato un attacco contro la caserma Seriate della città e i fascisti, ivi asserragliati, vengono attaccati con le armi nelle loro stesse difesissime posizioni.

E ancora: in novembre, altro attacco alla villa Pesenti e, il 15, al distretto militare dai cui uffici vengono sottratti importanti documenti. Si ha pure notizia di due arditi progetti che erano allo studio: un attacco ai fascisti bergamaschi riuniti in un grande convegno al Teatro Nuovo e la distruzione dei ponti di Sedrina per tagliare la via del ritorno ai fascisti impegnati in un rastrellamento a San Martino de’ Calvi. Ma fu una manifestazione popolare, cui parteciparono centinaia di persone, il 4 novembre, a lasciare un segno profondo nella città. La dimostrazione fu preparata dalla diffusione di numerosi manifestini effettuata a cura non solo della formazione del Turani, ma, si può dire, di tutte le organizzazioni presenti allora nella lotta.

L’appuntamento era alla Torre dei Caduti per le ore 14 del 4 novembre. La piazza si riempì di gente e molti fiori vennero gettati ai piedi della Torre in omaggio ai caduti della Grande Guerra combattuta contro i tedeschi. La polizia fu colta di sorpresa e gli agenti sopravvenuti usarono tutti i mezzi per disperdere la folla che, invece di andarsene, si incamminò verso il monumento a Garibaldi, alla Rotonda dei Mille, intonando l’inno garibaldino, (Ibid., p. 7.  Memoria Torricelli, cit., in Relazione Gervasoni, p. 6; v. anche nota n. 15. Emma Coggiola, op. cit., pp. 9-10-11),  mentre i tedeschi, dalle finestre dei loro comandi, guardavano ignari i giovani e le donne nella piazza sottostante. Ad intervenire questa volta fu una vecchia conoscenza dei bergamaschi: il segretario federale fascista fino al 25 luglio, tornato ora a Bergamo sotto la scorta delle baionette tedesche. Ben protetto anche ora, imitando nelle sue pose gli atteggiamenti di Mussolini, egli tentò di iniziare un discorso, ma, dato l’umore della folla, preferì limitarsi a calpestare i fiori gettati in omaggio di Garibaldi. Due arrestati furono più tardi rilasciati per interessamento del Turani.

Quindici giorni dopo questa elettrizzante manifestazione antifascista Arturo Turani veniva arrestato. Nella notte fra il 19 e il 20 novembre elementi della gendarmeria tedesca insieme ad alcune comparse fasciste si presentarono al n. 13 di via Pignolo, dove il Turani abitava. Quella notte era rifugiato nella casa anche un ex prigioniero jugoslavo, il quale avrebbe dovuto ripartire la mattina seguente per accompagnare oltre il confine un gruppo di suoi commilitoni. Non si può dire che i poliziotti abbiano trovato molto nel corso della perquisizione, giacche le carte cifrate, i documenti, i timbri e il materiale di propaganda erano occultati in un’altra abitazione.

Sfortunatamente però sul tavolo del Turani era rimasto il cuscinetto per i timbri, sul quale, quasi asciutto d’inchiostro, era visibilissima l’impronta dell’aquila tedesca, lasciata dalla pressione del timbro usato per la falsificazione dei certificati bilingui. Per i tedeschi questa scoperta ed il rinvenimento di alcune armi furono prove schiaccianti: ma il colpo maggiore lo fecero con l’appostamento che portò all’arresto di venti persone, tutte dirette con poca circospezione nell’abitazione del Turani, che serviva da base alla formazione. Tra gli arrestati il commissario Moretti, i comandanti dei distaccamenti di Rovetta, Roberto Pontiggia, di Lallio, Marino Mazzucconi, di Fiohbio, Gabriele Castellini: il capitano Bellotti, e altri membri di minore importanza, ma tutti al corrente di molte cose. Per il momento si salvò Giuseppe Sporchia, avvisato da chi aveva visto la colonna degli arrestati salire a piedi, scortata dai tedeschi, verso il convitto Baroni. Gli arresti però continuarono e colpirono con una certa precisione (Relazione Gervasoni, p. 12.), il che dimostra quanto la polizia e la Gestapo sapessero di ciò che avveniva all’interno della formazione. Tra gli arrestati di quei giorni furono molti giovani, che continuarono poi attivamente nella lotta per la libertà, ma il vero « colpo » per la polizia fu di poter mettere le mani anche su Giuseppe Sporchia e Cesare Consonni. Quest’ultimo fu il primo ad essere fucilato dai tedeschi, dopo la condanna a morte, il 6 gennaio 1944.

Pochi giorni prima di morire scriveva ai genitori e ai fratelli: « Poche righe vi lascio: è solamente per dirvi che non c’è stato un solo istante in cui non vi abbia pensato. Abbiate coraggio e pregate per l’anima mia... io veglierò su di voi... ». Giuseppe Sporchia, che fu catturato il io dicembre 1943 in viale Vittorio Emanuele, mentre si recava ad una riunione clandestina, seguirà invece la sorte del Turani. Questi subì in carcere un trattamento durissimo ma non rivelò mai nulla che riguardasse gli uomini e l’organizzazione. «Un giorno i tedeschi lo fecero entrare nello stanzone dove erano rinchiusi alcuni giovani, accusati d’aver avuto con lui qualche rapporto: era curvo come se non potesse più reggersi, sotto gli occhi le guance erano livide, screpolate: trascinava una gamba penosamente come se con le bastonature gliel’avessero spezzata. Gli chiesero : ” E’ qui? ”. Rispose con fermezza senza guardare nessuno come usatissimo ormai a ripetere no all’infinito e sempre no: ” No, no, non c’è ” ». Dal giorno dell’arresto fino al 31 dicembre rimase al convitto Baroni nelle mani della gendarmeria tedesca, mentre fu trasferito. L ’annuncio ufficiale della condanna e dell'esecuzione della sentenza venne pubblicato da Bergamo repubblicana il 20 gennaio 1944. Ecco il testo del comunicato: «L’Ufficio stampa della Prefettura comunica: ”  Tribunale di guerra del comando militare germanico 1016 ha pronunciato la seguente sentenza: Il suddito italiano Cesare Consonni, nato a Bergamo il 27 giugno 1922 e domiciliato nella stessa città, viene condannato a morte. La causa: Consonni possedeva armi da fuoco, munizioni, bombe a mano e materiale esplosivo e con ciò si è fatto colpevole nello stesso tempo di complicità nell’aiuto ai partigiani. La sentenza è passata in vigore. Il condannato è stato fucilato il 6 gennaio 1944 ” ». ( (Vajana, op. cit., p. 51).  Si vedano i suoi ultimi messaggi alla famiglia in : Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli, Torino, 1952, pp. 212-215.

Anche per il Turani si veda la stessa opera, pp. 224. Riteniamo giusto dover rettificare un’inesattezza apparsa nella biografia del Turani premessa alle lettere; laddove sta scritto che egli fu catturato a « Cosa di Val Pigna », si deve evidentemente leggere « a casa in via Pignolo ». Anche la data 15 novembre va corretta in 19. (Relazione Gervasoni, p. 17. 64 nel carcere di Sant’Agata, nella cella n. 2, dal gennaio al 5 febbraio, e nella cella n. 8 successivamente. Il processo si concluse con una sentenza scontata: la pena di morte. Giuseppe Sporchia, di 36 anni, operaio, padre di tre bambine, era già stato condannato a morte nell’udienza del 5 gennaio. Altri arrestati, appartenenti alla stessa formazione o comunque con essa collegati, ebbero condanne a pene varie: otto anni al prof. Ettore Vacha, che morirà in campo di concentramento, pena di morte a Evaristo Locatelli, poi graziato; sei anni a Roberto Pontiggia e a Umberto Esposito, tutti internati in Germania. Il Turani inoltrò, senza risultato, la domanda di grazia e attese a lungo in carcere, dopo la condanna a morte, l’esecuzione della sentenza che avvenne il 23 marzo 1944 al tramonto, nel cortile della caserma Seriate.

Alle ore 15 un ufficiale tedesco si era presentato a lui nel carcere di Sant’Agata annunciandogli che la domanda di grazia era' stata respinta e che la sentenza doveva essere eseguita. Una commossa descrizione delle ultime ore di vita del Turani e dello Sporchia è dovuta alla penna del cappellano del carcere, Andrea Spada, contenuta nel libro del Vajana, cui aggiungiamo una dichiarazione inedita rilasciata dallo stesso sacerdote il 17 luglio 1945. Una delle lettere scritte dal Turani in carcere e diretta a Sereno Locatelli Milesi è stata da questi pubblicata nel suo libro Bergamo vecchia e nuova e la Bergamasca, Bergamo, 1945, pp. 87 e ss.  Anche queste condanne e relative esecuzioni furono annunciate per mezzo della stampa e con notevole ritardo.

L ’annuncio, di cui di seguito diamo il testo, apparve infatti in Bergamo repubblicana il 5 aprile 1944: « L ’Ufficio stampa della Prefettura comunica: ” Dal Tribunale di guerra del comando militare germanico di Bergamo furono condannati:

1) Il meccanico Giuseppe Sporchia, causa proibito possesso d’armi da fuoco e munizioni, a morte. La sentenza è stata eseguita il 23 marzo 1944 con fucilazione;

2) L ’architetto Arturo Turani, causa proibito possesso di armi da fuoco, munizioni, bombe a mano ed esplosivi in azione con i partigiani, a morte. La sentenza è stata eseguita il 23 marzo 1944 con fucilazione ” ». (Op. cit., pp. 49-55. (34) « Bergamo 17-7-45 — Io sottoscritto Sac. Andrea Spada, direttore del giornale « L ’Eco di Bergamo, dichiaro di aver assistito personalmente come cappellano delle carceri, alla morte di Arturo Turani di Bergamo abitante in via Pignolo 13. La  morte è avvenuta il giorno 23 marzo 1944 alle ore 17,30 nell’interno della caserma  Seriate in seguito a fucilazione ordinata dal comando germanico.  Nessun italiano, eccetto il sottoscritto, era presente alla fucilazione. Potei assistere fino a che il medico tedesco non ebbe constatato il decesso e non ebbe dato « comunicazione di ciò al presidente del Tribunale germanico presente.  Dopo di che venni invitato a prendere posto su una macchina ed accompagnato alla mia abitazione. Avevo chiesto di poter somministrare l’Estrema Unzione, ma il  presidente mi pregò di non insistere. Nell’allontanarmi potei vedere che la salma Inizi della Resistenza a Bergamo 65 Le spoglie dei due fucilati non vennero consegnate alle famiglie, ma occultate e, solo dopo la liberazione, vennero rintracciate in una fossa del cimitero di Lallio. Il 30 settembre 1945 ebbero luogo grandi e solenni funerali in città e grandissimo fu il tributo popolare di riconoscenza ai due caduti. Due formazioni delle brigate Matteotti furono intitolate ai due fucilati. Il retroscena degli arresti e dell’offensiva poliziesca contro la formazione Turani si conobbe nel ’45 quando fu arrestato colui che precise accuse indicarono come il delatore infiltratosi nella banda. Costui venne arrestato nel luglio e giudicato dalla Corte d’assise straordinaria il 22 dicembre 1945. Dichiarò di essere stato costretto dalle torture a fare i nomi dei componenti della formazione, ma troppi occhi lo avevano visto quando si accompagnava con le pattuglie degli occupanti durante le perquisizioni operate dopo i primi arresti. Venne condannato a otto anni di carcere e a tre di manicomio giudiziario, essendogli stata riconosciuta la seminfermità mentale. Una condanna mite se si pensa alla spietata durezza dei carnefici tedeschi; una sentenza, se si vuole, inspiegabile, per un uomo che, purtroppo accettato e lasciato operare, condusse il regime di cui era arnese a vincere una battaglia contro gli uomini che si battevano per la libertà.

Adolfo Scalpelli

Tratto da RAV0068570_1961_62-65_27.pdf (reteparri.it)

 


--------------------------------

1869, il giallo di Borgo Palazzo nel libro di

Fabio Paravisi


Tra feste, garibaldini e prostitute l’autore (giornalista del Corriere) racconta la storia di un assassinio a Carnevale e delle indagini. Il titolo: «Le impronte del male»


di Fabio Paravisi
 
 
Sarà presentato venerdì 26 ottobre alle 18, alla libreria Ubik di Borgo Santa Caterina 19, il romanzo «Le impronte del male» di Fabio Paravisi (edizioni Bolis), giornalista del Corriere della Sera nella redazione di Bergamo. Si tratta di un giallo con venature di commedia che si svolge nella Bergamo post unitaria, e che prende spunto da un fatto vero, l’omicidio di un mediatore di bestiame, accaduto nel febbraio 1869, in quella che oggi è via Borgo Palazzo. Delitto ricordato da un cippo ancora presente ai bordi della via. Pubblichiamo un estratto del primo capitolo.

Camminando sotto una sottile pioggia gelata i due costeggiavano il grande complesso in disarmo della Fiera con le sue centinaia di botteghe semiabbandonate, e da lì imboccarono il percorso lastricato del Sentierone che collegava i due borghi di Bergamo Bassa. (...)

Il seppellitore li vide arrivare da lontano e piantò il badile nel cumulo di terra a fianco della fossa che stava scavando. Poi con tutta calma li guardò avvicinarsi. «Lei è il seppellitore?», chiese Fainella. Quello guardò la fossa, poi riguardò Fainella e alzò le spalle. Ha ragione, si disse il carabiniere, domanda stupida. (...) «E dove...» fece per dire. L’altro indicò col manico del badile un edificio basso in fondo al camposanto, poi ricominciò a scavare nella terra fradicia. Il carabiniere e la guardia entrarono nella camera mortuaria. Dalla porta filtrava una luce livida e Fainella accese una lampada che trovò su uno scaffale. La fiammella illuminò poco alla volta la sagoma che si intravvedeva su un tavolo. Sembrava una grande bestia abbattuta. Anche da morto, Monticelli continuava a mostrare la forza che doveva avere avuto da vivo nelle dimensioni delle spalle, del torace e delle braccia con le maniche rimboccate. Un braccio penzolava dai bordi del tavolaccio. (...) Fainella si girò, appoggiandosi con un improvviso fiatone allo stipite della porta e maledicendosi: vuoi indagare su un omicidio e non riesci nemmeno a guardare la vittima.

«Cosa c’è, ti senti male?», gli chiese Pagnoncelli.
«In vita mia un cadavere non l’avevo visto mai, nemmeno quello di mio nonno che pure ci siamo tenuti in casa tre giorni prima del funerale».

«Beato te, io ho cominciato a sei anni a fare il chierichetto, e sai quanti che ne ho visti quando andavamo a fare la benedizione? Le prime volte me li sognavo di notte». (...) All’improvviso si girò con un gesto rabbioso e si affacciò alla porta, gridando: «Sotramòrt!». Il seppellitore alzò la testa dalla fossa, colto di sorpresa dall’urlo e, senza neppure sapere perché, si affrettò verso la camera mortuaria. Fu investito dalla furia della guardia: «Ma è così che fate il vostro mestiere? È così che si trattano i morti? E il giudice istruttore cos’ha detto?».

Colto di sorpresa dall’esplosione di rabbia di quello spaventapasseri che pochi minuti prima sembrava confondersi con i cipressi del vialetto, il Ghezzi allargò le braccia tentando una risposta. Ma non essendo abituato a parlare fece fatica a organizzare in modo sensato i tentativi che gli si affacciavano alla mente: «Ma io... ma loro... ma quando... ma pota io...».
«Ma pota un ostrega!», sbottò Pagnoncelli, abbrancando il seppellitore per un braccio e trascinandolo dentro, sotto lo sguardo sbigottito di Fainella che mai si sarebbe aspettato una simile esplosione di energia.

«E adesso ci aiutate! — ordinò Pagnoncelli — Spogliatelo!». L’altro tentò in qualche modo di articolare un’obiezione indicando la porta: «Ma loro... ma quelli là... ma io...».
Pagnoncelli ringhiò: «Guardate che sono dietro a stufarmi, e se mi stufo davvero sono capace di farvi fare la strada fino all’ufficio di Pubblica Sicurezza a pedate nel didietro». Anche nella stupefazione del momento, Fainella si guardò intorno chiedendosi: «Ma dietro dove?». Il Ghezzi si rassegnò, rimboccandosi le maniche e cominciando in modo spiccio la svestizione del cadavere. (...) Quando il torace fu liberato dai vestiti, il seppellitore lo indicò con una mano. Avrebbe voluto dire: «Ecco, siete contenti adesso?», ma nel dubbio di riuscire a mettere nell’ordine giusto le quattro parole si accontentò di srotolarsi le maniche. La guardia mise le mani sulle spalle del carabiniere e gentilmente lo girò verso il cadavere: «Allora? Cosa dici?».
 
Vergognandosi della propria paura, Fainella si fece avanti cercando di dare un’occhiata professionale al corpo. «Poraccio...», mormorò avvicinandosi. Con un gesto sgraziato il seppellitore prese il braccio muscoloso che penzolava dal tavolo con la mano stretta a pugno e lo spinse sul corpo ma il braccio ricadde giù. Il cadavere era ricoperto di lividi, gonfiori, tagli. Alcuni segni erano tondeggianti, altri lunghi e stretti, in più punti la pelle era lacerata. L’occhio sinistro era gonfio e scuro, un lato della faccia era coperto di sangue e fango.

«Un cadavere non l’avevo guardato mai, ma di gente abbottata quando stavo a Napoli me n’è capitata parecchia — mormorò Fainella —. Quelli sono pugni, queste qui bastonate, lì sono costole rotte. E nel collo — disse in un soffio indicando dei segni profondi — una coltellata, anzi due, pure tre». Il Ghezzi riprese il braccio penzolante e cercò di rimetterlo a fianco del cadavere. Vicino al polso c’era quella che sembrava una macchia di sangue coagulato, ma che da vicino somigliava più a pelle morta con sotto un grosso grumo.

«Il morto è morto», fece sarcastico il seppellitore. Il tono non piacque a Pagnoncelli, che reagì subito: «Al posto di fare lo spiritoso, cercate di aprirgli la mano». Borbottando «almeno un po’ di rispetto, io sono stato giù col Garibaldi», il Ghezzi obbedì. O almeno ci provò, perché le dita non volevano saperne di aprirsi. «Per forza, è qui da ieri sera». «Va bene, rivestitelo, vi faremo sapere», disse Fainella che non vedeva l’ora di uscire, e si avviò verso la porta. Il seppellitore aspettò di vedere le due divise allontanarsi, poi scandì con aria beffarda: «Comandi». Recuperò la pala e buttò un’occhiata al cadavere: «A te ti copro giù dopo, tanto non hai mica freddo», disse spegnendo il lume. Quando sbatté la porta il braccio del cadavere ricadde di lato e la mano si socchiuse.

25 ottobre 2018
Tratto dal "Corriere della Sera"

 

---------------------------------------------
 
Quell’antica lapide in Borgo Palazzo Cronaca di un agguato di 150 anni fa

 


La storia (dimenticata) di Francesco Monticelli, ucciso nel 1869 da tre briganti che lo rapinarono di una manciata di lire. Chi era e che cosa faceva, i racconti dell’epoca e il cippo scolpito dai tre figli superstiti  

Le pietre parlano. A chi si ferma e sa ascoltarle raccontano con voce remota storie e Storia, vite e drammi, glorie e delitti. Le lapidi di Bergamo ci dicono dove nacque Manzù e dove studiò Donizetti, dove visse Quasimodo e dove soggiornò Stendhal, ma anche l’altitudine di Città Alta e da che vicolo «passò la beata Verzeri». Le lapidi commemorative in città sono 150 ma pochi le guardano, tanto che sei anni fa l’associazione Madame Du Plok le ricoprì di drappi fucsia per costringere i passanti ad alzare lo sguardo. Ma per molte altre bisogna cercare in basso: costellano le strade e sussurrano di incidenti e drammi, in una Spoon River sfiorata dal traffico e ignorata dai passanti.  

Il cippo in via Borgo Palazzo

In via Borgo Palazzo serve molta attenzione per notare un piccolo cippo in arenaria di 65 centimetri per 40, vicino all’incrocio con via Daste e Spalenga. Regge una lapide di marmo che recita: «Monticelli Francesco fu Pietro/qui assassinato il 7-2-1869 d’anni 43/I figli». Undici parole e quattro numeri che riassumono una tragedia persa tra le nebbie del tempo e di cui nessuno sa più nulla. Per questo vale la pena, una volta tanto, di chinarsi su quella pietra e sentire cos’ha da raccontare. Narra la storia di Francesco Monticelli, nato in via Madonna della Neve da Pietro, oste e ortolano, e da Maria Cugini. Ha un fratello, Pietro Ambrogio, e due sorelle che vivranno oltre i 90 anni: Annamaria (che eredita il nome della primogenita morta da piccola) e Maria Caterina. Si sposa con Teresa Mutti, di cinque anni più giovane, originaria di Vall’Alta. La coppia va a vivere in Borgo Palazzo 43, vicino alla chiesa di Sant’Anna e, fra il 1852 e il 1868, ha cinque figli: Pietro, Giuseppe, Emanuele, Luigi e Santo. Francesco li mantiene con il suo lavoro di sensale, cioè mediatore nella compravendita di terreni e bestiame, che lo porta anche a girare con molti contanti in tasca.
 

L’agguato

Questo giocherà un ruolo chiave nell’omicidio: la Gazzetta di Bergamo chiarirà che dopo la morte verrà «spogliato di alcune centinaia di lire». Cento lire del 1869 equivalgono a 456 euro di oggi. Il 6 febbraio è la domenica prima di carnevale, il sole cala presto: secondo i lunari di quell’anno alle 16.50 è già buio. Alle 20 Francesco sta camminando lungo lo «stradale per Seriate», una grossa via tesa fra le ultime case di Bergamo (dove oggi c’è viale Pirovano) e le prime affacciate sul Serio. Scordatevi la folla di condomini e capannoni di oggi: il rilievo militare asburgico di qualche anno prima disegna solo campi e qualche cascina. Non esistono foto di Francesco, e ci tocca immaginarlo come il Batistì dell’ Albero degli zoccoli : baffoni a manubrio, cappello calcato in testa e sulle spalle un tabarro per proteggersi dal freddo e dall’umidità che si alza dai campi. Cammina nel buio: nessun rapporto nomina cavalli o birocci. Le scarpe pesanti fanno scricchiolare l’erba ghiacciata. Rincasando forse da un affare arriva all’incrocio con il sentiero che sale verso le case di Daste e, più su, di Spalenga. Lì gli si parano davanti tre uomini, abitano nel suo quartiere e probabilmente sanno che ha addosso del denaro. Lo minacciano, lui forse reagisce e i tre lo massacrano di botte, abbandonando poi il corpo ai bordi della strada. La Gazzetta darà la notizia in dieci righe nella rubrica «Cronaca e fatti diversi» spiegando che «vicino alla via che si diparte per Daste è stato trovato morto per ferite in varie parti del corpo certo Monticelli».

 
La colletta per la vedova
 
Tre giorni dopo Francesco viene sepolto nel cimitero di San Maurizio, uno dei tre della Bergamo di allora. Il seppellitore Giuseppe Ghezzi e il sacrista Alessandro Gardana si presentano in municipio per far registrare la morte, e il sostituto segretario Antonio Gasparini con fredda burocrazia registra che Francesco si è «reso defunto», come se fosse stata una sua iniziativa. Le indagini sono veloci: la sera dell’11 febbraio, scrive la Gazzetta , le «Guardie di Pubblica sicurezza aiutate dai Regi Carabinieri» arrestano tre uomini «gravemente indiziati come autori della grassazione (rapina a mano armata, ndr) ed assassinio del Monticelli». Se ne indicano solo le iniziali e si specifica che vivono in Borgo Palazzo. Il dramma tocca molti. Tanto che il 2 marzo il giornale pubblica un appello sotto il titolo «Cittadini!». Si accenna a Francesco «orribilmente assassinato sulla pubblica via» e si racconta: «Una vedova con cinque teneri pargoletti rimangono in questa terra di lagrime per provare quanto di desolante e di misero vi sia nella loro miserabile vita, da nessuno assistiti, nella più cruda desolazione, nella più compassionevole indigenza versati! Ove la giustizia di Dio non è giunta, provveda l’umana misericordia». Si lancia quindi una colletta, raccolta «dall’oste di via Borgo Palazzo Giacomo Benigni all’insegna dell’Ancora».

Il triste destino della famiglia Monticelli
 

Non è possibile sapere quanti abbiano contribuito. Ma la storia nn si ferma qui. Perché quando Franceco viene ucciso, sua moglie è incintal quinto mese. E il 9 giugno la leatrice Teresa Ceribelli denuncia in unicipio che alle 9 di due giorni prma, esattamente quattro mesi dopo l’omicidio, è nata la figlia di Francesco e Teresa. Viene chiamata Francesca Rachele. Ma la piccola morirà tredici mesi dopo. E i drammi nella famiglia Monticelli non si fermano: l’anno dopo morirà Pietro, 19 anni, l’anno successivo Santo, 4 anni, e infine nel 1877, a 46 anni, anche la loro madre. A quell’epoca la vita media in provincia di Bergamo era di 35,3 anni, dato abbassato dalla spaventosa mortalità infantile: 225 bimbi su mille morivano nel primo anno, 500 su mille entro i primi cinque.
 
Il pensionato e i numeri giocati al lotto

 
Restano così soli al mondo Giuseppe di 21 anni, Emanuele di 17 e Luigi di 11. Saranno loro, qualche tempo dopo, a piantare quel cippo. Dei tre ragazzi non sappiamo più niente. Il mondo attorno a quel pezzo di pietra è cambiato mille volte, la campagna è scomparsa e lo «stradale» è diventato uno stradone su cui corrono fino a 1.200 veicoli l’ora. Ma il cippo è rimasto lì, impassibile, perdendo solo qualche frammento. Quando gli operai del Comune hanno realizzato la ringhiera del marciapiede hanno avuto la delicatezza di realizzargli uno spazio attorno. Poi gli hanno piantato dietro un pannello solare. I ragazzi di Francesco avranno avuto figli, nipoti e pronipoti, ma negli anni la memoria di quel delitto si è sfarinata come gli strati di arenaria del cippo. E i discendenti dell’uomo ucciso forse sfrecciano su via Borgo Palazzo senza sapere niente di quella lontana storia. Ma qualcuno che si interroga c’è: «Passo spesso da qui e ho anche fotografato il cippo, incuriosito dalla scritta - racconta Gem Gervasoni, 77 anni -. Da qualche mese sto giocando al lotto la data dell’omicidio». Risale in bici e se ne va, e la storia davanti al piccolo cippo riprende a scorrere.

 
di Fabio Paravisi

Tratto dal "Corriere della Sera"

16 maggio 2016


-----------------------------------------
 


Bergamo scomparsa: le tre grandi epidemie


 


Fin dalla metà del Trecento, a seguito della terribile “peste nera”, era sentita nelle città italiane la necessità della costruzione di un ospedale per gli appestati lontano dal centro abitato e collocato in posizione tale da evitare che l’aria infetta provocasse il contagio ai sani.

I numerosi studi dell’epoca, fra i quali ebbe particolare considerazione il “De preservatione a pestilentia” del milanese Cardone de’Spanzotis, evidenziavano infatti il carattere contagioso della peste, fino ad allora poco noto alla scienza medica. Era l’aere pestilenziale, la “mal’aria”, a provocare la corruzione putrida del corpo.

Il problema, rinviato nella prima metà del Quattrocento, tornò a presentarsi con urgenza durante le pestilenze che interessarono l’Europa nella seconda metà del secolo. Fu Venezia la prima città a provvedere alla bisogna. Fin dal 1423 aveva destinato un’isola poco lontana dall’attuale Lido al ricovero di persone e merci provenienti da paesi infetti. Sull’isola esisteva una chiesa gestita dai frati rremitani dedicata a Santa Maria di Nazareth e forse proprio da tale dedicazione derivò il nome all’edificio che sembra sia stato originariamente chiamato “nazaretto”. A tale termine la sovrapposizione del nome del patrono dei lebbrosi, San Lazzaro, portò alla denominazione “lazzaretto” che fu estesa a tutti gli edifici successivamente destinati in Europa a tale uso. Nel 1468 in un’altra isola dall’altra parte della laguna fu edificato un lazzaretto nuovo destinato ad accogliere i malati sospetti, mentre al vecchio lazzaretto restava la funzione di ricoverare gli appestati accertati.

A Milano il lazzaretto fu realizzato tra il 1489 e il 1509 fuori Porta Orientale, nella zona posta a est del centro abitato. Sembra sia stata determinante ai fini della scelta del loco la considerazione della direzione dei venti dominanti che spiravano sulla città.

A Bergamo nel 1465, dopo discussioni e ripensamenti che dovettero durare a lungo, fu scelta per la costruzione del Lazzaretto la zona dell’attuale piazzale Goisis a lato dell’attuale campo sportivo. Esterna non solo alle mura antiche, ma anche alle muraine, l’area era sgombra di abitazioni, ma facilmente raggiungibile dai carri adibiti al trasporto dei malati. La presenza dei torrenti Morla e Tremana garantiva il necessario rifornimento d’acqua.

 

Il registro “Parti per la fabrica del Lazareto e spese per la fabrica” riporta i costi e le risorse impiegate. I proventi della Roggia Nuova furono utilizzati per l’acquisto di 111 pertiche di terre, mentre sopperirono alla spesa della costruzione le tasse provenienti dalle multe e dalle condanne criminali “et altre diverse”.

Ma la realizzazione andò per le lunghe e l’edificio era ancora in progetto quando si verificò il disastro. Nel 1503 un’epidemia di peste e di febbre tifoidee provocò un grande numero di morti soprattutto fra le classi povere. Sappiamo dalle ricerche della studiosa Colmuto Zanella che gli appestati venivano ricoverati sia nel romitorio di Santa Maria di Sotto, da tempo probabilmente adibito a quell’uso e oggi noto come Conventino, sia in località Ramera nel monastero isolato di Valmarina lasciato libero dalle monache benedettine, trasferitesi in città. Ma data la scarsa capienza dei due edifici possiamo supporre che i malati fossero ricoverati anche in capanne provvisorie in altre zone del suburbio.

Furono nominati quattro deputati con ampi poteri per provvedere all’assistenza sanitaria, ma fu soprattutto la Misericordia Maggiore a far fronte alle necessità inviando ogni giorno provviste di pane e di vino. “Ben poco valendo i rimedi – racconta il Belotti – si studiò di mandare alla chiesa di Santa Caterina quindici vergini che dovevano recitare centinaia di pater e ave davanti all’immagine della Santa con quindici candele nuove accese e quindi per tutta la giornata non vivere che a pane ed acqua”.

L’epidemia era ancora in corso quando il 7 maggio 1504 il Podestà di Bergamo accompagnato da tutto il clero e da tutto il popolo “con le debite e consuete solennità” poneva la prima pietra del nuovo Lazzaretto.

Andreina Franco Loiri Locatelli

Bergamo Sera 14 dicembre 2017

-----------------------------
 
 Bergamo scomparsa: la peste e il Lazzaretto
 

 

Abbiamo assistito nella puntata precedente alla posa della prima pietra del Lazzaretto, cerimonia avvenuta “con le debite et consuete solennità” e con gran concorso del clero e del popolo il 7 maggio 1504.

I lavori di costruzione si protrassero a lungo e l’edificio risultava terminato nel 1581. “Bellissimo, ben fatto et molto grando” lo definiva però già nel 1536 un visitatore friulano, prè Zuan de San Foca nei suoi appunti di viaggio, segno che la costruzione doveva essere all’epoca già molto avanzata.

Si presenta tuttora come un vasto recinto rettangolare di metri 132 per 129. Chiuso all’esterno era circondato in origine da un fossato perimetrale ora interrato. Nella struttura compatta si aprivano due ingressi contrapposti. Il principale posto sul braccio sud-est conserva il portale originale in arenaria, nella cui chiave di volta era leggibile la data 1504 affiancata nei pennacchi da due stemmi ancor oggi visibili. Un semplice arco in arenaria definisce l’accesso secondario, oggi, a quanto sappiamo non più utilizzato.

All’interno un lungo porticato perimetrale ad archi a tutto sesto su colonne in pietra introduceva alle celle, realizzate con tecniche moderne tali da consentire il massimo conforto ai ricoverati. Ognuna di esse si affacciava sul portico mediante una finestra e una porticina ad arco dotata di un battente di chiusura. Sulla parete di fondo un’altra finestra era situata in modo da favorire la ventilazione trasversale e un camino assicurava il riscaldamento.

Una nicchia separata, arieggiata da una piccola feritoia, ospitava il gabinetto costituito da una lastra in pietra con foro circolare e da uno scarico in coppi per l’evacuazione nella roggia esterna. Lo stesso condotto serviva un acquaio realizzato in pietra arenaria e sovrastato da un ripiano per il deposito del vasellame. In una seconda nicchia un’armadiatura a muro conservava le lucerne e gli strumenti necessari per l’illuminazione. Grazie a tali attrezzature, alla posizione delle finestre e soprattutto alla modernità dell’impianto fognario il Lazzaretto bergamasco risultava tecnologicamente più avanzato di quello milanese dal quale sicuramente aveva mutuato l’impianto e i criteri distributivi.

Tutta la struttura si situava a piano terra. Solo in corrispondenza dell’ingresso principale la costruzione era a due piani, ospitando l’abitazione del personale, l’alloggio dei frati e forse il refettorio.

Chiusa dal perimetro dell’edificio era “una pezza di terra aradora di pertiche sedici e mezza” al centro della quale si ergeva una cappella aperta, formata da un baldacchino con volta a crociera retta da quattro pilastri. La struttura e la collocazione ne permettevano la vista da tutte le celle. Dedicata ai Santi Giobbe, Rocco e Sebastiano, fu per delibera comunale il 18 agosto 1710 sostituita da una piccola chiesa, oggi non più esistente.

La costruzione del Lazzaretto risultò provvidenziale in occasione delle tre grandi epidemie che, come vedremo, colpirono la città nel 1524, nel 1576 e quindi nel 1629, la famosa peste descritta dal Manzoni. In tutti e tre i casi, ma soprattutto in quello della peste manzoniana, la struttura non risultò sufficiente a ricoverare tutti gli appestati così che si dovette ricorrere ad aree aggiuntive con la realizzazione temporanea di accampamenti di fortuna. Nel 1630 sicuramente nella zona triangolare tra porta Osio e porta Broseta. Visibile oggi in via San Lazzaro una santella con iscritta la data 1630.

Dopo aver assolto la funzione di ricovero prima per gli appestati e poi per i colerosi, l’edificio ebbe i più diversi utilizzi: mercato del bestiame, recinto per gli stalloni reali, magazzino, campo di concentramento per i prigionieri di guerra durante la Repubblica di Salò. Oggi è sede di numerose associazioni. Le diverse destinazioni d’uso non hanno comunque alterato l’impianto originario, che rimane l’unico esempio in Italia, forse in Europa, di Lazzaretto conservato integralmente.

Andreina Franco Loiri Locatelli

Bergamo Sera 23 gennaio 2018


--------------------------
 
 
La "breccia" nelle Mura



Agli inizi del 1900 non esisteva l'Unesco per proteggere i più importanti monumenti, classificandoli come "Patrimonio dell'Umanità", sicché i Governanti e i Pubblici Amministratori del tempo, potevano distruggerli o mutilarli senza che qualcuno si opponesse con vigore.


Anche gl'interventi che potevano essere poco invasivi o almeno salvaguardare in parte il patrimonio storico e ambientale, utilizzando l'ingegneria "chirurgica", non erano tenuti in considerazione perché costosi e necessitavano di tempi più lunghi.


In nome del risanamento e della nuova urbanizzazione delle città nel 1912  si procedette, quindi, a deturpare e rovinare per sempre  ciò che la storia ci aveva lasciato fortunatamente intatto.


Un classico esempio lo possiamo trovare a Bergamo con la "breccia" rappresentata dalla costruzione della nuova strada che doveva collegare Colle Aperto con Castagneta, un piccolo Borgo sui colli,  poche centinaia di metri fuori dalle Mura.

 
Nasceva via Beltrami.
In precedenza la borgata era raggiungibile, sempre da Colle Aperto e uscendo da Porta Sant'Alessandro,  salendo per un breve tratto la strada che conduce a San Vigilio. Qualche centinaio di metri oltre la porta, a destra una strada passando sotto il Bastione di San Marco, (oggi denominata Via sotto Mura di Sant'Alessandro) conduceva in Castagneta.

Era la principale via di comunicazione con la Città Vecchia.
Un'alternativa era la mulattiera che saliva da Valtesse, a sinistra  poco prima la Chiesa, scandendo da Porta Garibaldi, passando dal Roccolino.

A colpi di piccone, gli operai addetti ai lavori, non si limitarono ad aprire una breccia ma non indugiarono a costituire un proprio e vero squarcio nella cinta muraria, demolendo oltre al terrapieno e agli enormi pilastri che irrobustivano le mura, anche strutture militari che, si presume non avendo documentazione certa, potevano riferirsi a ricoveri per le truppe di cavalleria o di una "sortita.
Molto probabilmente le strutture militari erano funzionali alla Porta segreta, la "Quinta Porta" , tuttora visibile, dietro una cancellata in ferro, percorrendo Via sotto Mura di Sant'Alessandro.
 

Di questa demolizione ne approfittarono alcuni cittadini che costruirono ville sul lato destro della breccia, delle quali abbiamo testimonianza ancora oggi. Ville con giardini pensili e vista sulla vallata sottostante.

La speculazione non mancò certamente, e quanto ne fossero a conoscenza i progettisti dell'opera non ci é dato di sapere. Il risultato é sotto gli occhi di tutti.
 

Una ferita in una struttura centenaria non inferta dal nemico in caso di attacco, scopo per cui era stata progettata e costruita dalla Repubblica di Venezia la cinta muraria di Bergamo, ma dalla mano amica dei suoi concittadini.
Sarebbe bastata una "Porta", decisero per un "crimine storico".

Nota: Le tre immagini si riferiscono, rispettivamente, al 1912, durante la demolizione del tratto di Mura ( ringrazio Dario Gamba );
La "Quinta Porta" in Via sotto Mura di Sant'Alessandro
Via Beltrami oggi all'altezza della demolizione;


-------------------------------------

Quell’antica lapide in Borgo Palazzo

Cronaca di un agguato di 150 anni fa


 
Foto del Corriere della Sera


La storia (dimenticata) di Francesco Monticelli, ucciso nel 1869 da tre briganti che lo rapinarono di una manciata di lire. Chi era e che cosa faceva, i racconti dell’epoca e il cippo scolpito dai tre figli superstiti


Le pietre parlano. A chi si ferma e sa ascoltarle raccontano con voce remota storie e Storia, vite e drammi, glorie e delitti. Le lapidi di Bergamo ci dicono dove nacque Manzù e dove studiò Donizetti, dove visse Quasimodo e dove soggiornò Stendhal, ma anche l’altitudine di Città Alta e da che vicolo «passò la beata Verzeri». Le lapidi commemorative in città sono 150 ma pochi le guardano, tanto che sei anni fa l’associazione Madame Du Plok le ricoprì di drappi fucsia per costringere i passanti ad alzare lo sguardo. Ma per molte altre bisogna cercare in basso: costellano le strade e sussurrano di incidenti e drammi, in una Spoon River sfiorata dal traffico e ignorata dai passanti.
In via Borgo Palazzo serve molta attenzione per notare un piccolo cippo in arenaria di 65 centimetri per 40, vicino all’incrocio con via Daste e Spalenga. Regge una lapide di marmo che recita: «Monticelli Francesco fu Pietro/qui assassinato il 7-2-1869 d’anni 43/I figli». Undici parole e quattro numeri che riassumono una tragedia persa tra le nebbie del tempo e di cui nessuno sa più nulla. Per questo vale la pena, una volta tanto, di chinarsi su quella pietra e sentire cos’ha da raccontare. Narra la storia di Francesco Monticelli, nato in via Madonna della Neve da Pietro, oste e ortolano, e da Maria Cugini. Ha un fratello, Pietro Ambrogio, e due sorelle che vivranno oltre i 90 anni: Annamaria (che eredita il nome della primogenita morta da piccola) e Maria Caterina. Si sposa con Teresa Mutti, di cinque anni più giovane, originaria di Vall’Alta. La coppia va a vivere in Borgo Palazzo 43, vicino alla chiesa di Sant’Anna e, fra il 1852 e il 1868, ha cinque figli: Pietro, Giuseppe, Emanuele, Luigi e Santo. Francesco li mantiene con il suo lavoro di sensale, cioè mediatore nella compravendita di terreni e bestiame, che lo porta anche a girare con molti contanti in tasca.

 L’agguato

Questo giocherà un ruolo chiave nell’omicidio: la Gazzetta di Bergamo chiarirà che dopo la morte verrà «spogliato di alcune centinaia di lire». Cento lire del 1869 equivalgono a 456 euro di oggi. Il 6 febbraio è la domenica prima di carnevale, il sole cala presto: secondo i lunari di quell’anno alle 16.50 è già buio. Alle 20 Francesco sta camminando lungo lo «stradale per Seriate», una grossa via tesa fra le ultime case di Bergamo (dove oggi c’è viale Pirovano) e le prime affacciate sul Serio. Scordatevi la folla di condomini e capannoni di oggi: il rilievo militare asburgico di qualche anno prima disegna solo campi e qualche cascina. Non esistono foto di Francesco, e ci tocca immaginarlo come il Batistì dell’ Albero degli zoccoli : baffoni a manubrio, cappello calcato in testa e sulle spalle un tabarro per proteggersi dal freddo e dall’umidità che si alza dai campi. Cammina nel buio: nessun rapporto nomina cavalli o birocci. Le scarpe pesanti fanno scricchiolare l’erba ghiacciata. Rincasando forse da un affare arriva all’incrocio con il sentiero che sale verso le case di Daste e, più su, di Spalenga. Lì gli si parano davanti tre uomini, abitano nel suo quartiere e probabilmente sanno che ha addosso del denaro. Lo minacciano, lui forse reagisce e i tre lo massacrano di botte, abbandonando poi il corpo ai bordi della strada. La Gazzetta darà la notizia in dieci righe nella rubrica «Cronaca e fatti diversi» spiegando che «vicino alla via che si diparte per Daste è stato trovato morto per ferite in varie parti del corpo certo Monticelli».
La colletta per la vedova

Tre giorni dopo Francesco viene sepolto nel cimitero di San Maurizio, uno dei tre della Bergamo di allora. Il seppellitore Giuseppe Ghezzi e il sacrista Alessandro Gardana si presentano in municipio per far registrare la morte, e il sostituto segretario Antonio Gasparini con fredda burocrazia registra che Francesco si è «reso defunto», come se fosse stata una sua iniziativa. Le indagini sono veloci: la sera dell’11 febbraio, scrive la Gazzetta , le «Guardie di Pubblica sicurezza aiutate dai Regi Carabinieri» arrestano tre uomini «gravemente indiziati come autori della grassazione (rapina a mano armata, ndr) ed assassinio del Monticelli». Se ne indicano solo le iniziali e si specifica che vivono in Borgo Palazzo. Il dramma tocca molti. Tanto che il 2 marzo il giornale pubblica un appello sotto il titolo «Cittadini!». Si accenna a Francesco «orribilmente assassinato sulla pubblica via» e si racconta: «Una vedova con cinque teneri pargoletti rimangono in questa terra di lagrime per provare quanto di desolante e di misero vi sia nella loro miserabile vita, da nessuno assistiti, nella più cruda desolazione, nella più compassionevole indigenza versati! Ove la giustizia di Dio non è giunta, provveda l’umana misericordia». Si lancia quindi una colletta, raccolta «dall’oste di via Borgo Palazzo Giacomo Benigni all’insegna dell’Ancora».
Il triste destino della famiglia Monticelli

Non è possibile sapere quanti abbiano contribuito. Ma la storia non si ferma qui. Perché quando Francesco viene ucciso, sua moglie è incinta al quinto mese. E il 9 giugno la levatrice Teresa Ceribelli denuncia in municipio che alle 9 di due giorni prima, esattamente quattro mesi dopo l’omicidio, è nata la figlia di Francesco e Teresa. Viene chiamata Francesca Rachele. Ma la piccola morirà tredici mesi dopo. E i drammi nella famiglia Monticelli non si fermano: l’anno dopo morirà Pietro, 19 anni, l’anno successivo Santo, 4 anni, e infine nel 1877, a 46 anni, anche la loro madre. A quell’epoca la vita media in provincia di Bergamo era di 35,3 anni, dato abbassato dalla spaventosa mortalità infantile: 225 bimbi su mille morivano nel primo anno, 500 su mille entro i primi cinque.
 Il pensionato e i numeri giocati al lotto

 Restano così soli al mondo Giuseppe di 21 anni, Emanuele di 17 e Luigi di 11. Saranno loro, qualche tempo dopo, a piantare quel cippo. Dei tre ragazzi non sappiamo più niente. Il mondo attorno a quel pezzo di pietra è cambiato mille volte, la campagna è scomparsa e lo «stradale» è diventato uno stradone su cui corrono fino a 1.200 veicoli l’ora. Ma il cippo è rimasto lì, impassibile, perdendo solo qualche frammento. Quando gli operai del Comune hanno realizzato la ringhiera del marciapiede hanno avuto la delicatezza di realizzargli uno spazio attorno. Poi gli hanno piantato dietro un pannello solare. I ragazzi di Francesco avranno avuto figli, nipoti e pronipoti, ma negli anni la memoria di quel delitto si è sfarinata come gli strati di arenaria del cippo. E i discendenti dell’uomo ucciso forse sfrecciano su via Borgo Palazzo senza sapere niente di quella lontana storia. Ma qualcuno che si interroga c’è: «Passo spesso da qui e ho anche fotografato il cippo, incuriosito dalla scritta - racconta Gem Gervasoni, 77 anni -. Da qualche mese sto giocando al lotto la data dell’omicidio». Risale in bici e se ne va, e la storia davanti al piccolo cippo riprende a scorrere.
di Fabio Paravisi
Il Corriere della Sera - 16 maggio 2016

 


-------------------------

Salita virtuale sulla funicolare di San Vigilio


Oggi che riapre dopo due mesi di lavori


 




 

Evviva! Con due settimane di anticipo riaprono le funicolari (San Vigilio oggi 14 marzo, mentre Città Alta venerdì 18 marzo), dopo l’interruzione della circolazione in data 18 gennaio, per lavori di manutenzione straordinaria. Come celebrare questa notizia? Semplicemente raccontandone la loro storia. Iniziamo da quella di San Vigilio.
Entrò in funzione il 27 agosto 1912, con due carrozze costruite dalla ditta bergamasca Fervet, mentre l’impianto era della Societé des Usines L. de Roll di Berna, anche se tutti sanno che promotore, progettista e costruttore fu lo stesso di quella di Città Alta, ovvero l’ingegnere Alessandro Ferretti. Nonostante non vennero predisposti un’inaugurazione ufficiale, neppure una targa e tantomeno un brindisi, fu un successo di passeggeri che si disposero ordinatamente in lunghe code dietro la Porta di Sant’Alessandro presso la stazione inferiore. Tutti erano molto eccitati, anche perché per la prima volta si andava comodamente alla scoperta dei nostri colli, o meglio “sul monte” (quello di San Vigilio), grazie al superamento del baluardo Pallavicino nelle mura veneziane.
La proprietà svizzera presentò da subito evidenti difficoltà, tanto che al suo fallimento nel 1918 le subentrò l’azienda municipalizzata di Bergamo, che tramite il Comune acquistò l’impianto per 50mila lire, contro le 240mila sborsate per la costruzione. Rimase attiva fino al 1976, quando il servizio venne sospeso, in primo luogo perché erano scaduti i termini della concessione governativa e soprattutto perché erano venuti meno i requisiti di sicurezza, forse gli stessi che causarono il rogo dei primi anni Ottanta. A quel punto la Commissione amministratrice dell’azienda predispose un progetto di radicale trasformazione, così che nel 1987 la ditta Ceretti Tanfani di Milano dette il via ai lavori, conclusi nel 1991.
Tra le migliaia di passeggeri trasportati negli anni, il più illustre fu senza dubbio Hermann Hesse, che la utilizzò nel 1913 e che apprezzò gli scorci panoramici e le innumerevoli possibilità di piacevoli percorsi sui colli della città: la descrizione che rilasciò all’epoca ancora oggi ha la capacità di emozionarci.
 
Bergamo: Funicolare di San Vigilio (cab-ride)
https://youtu.be/MSjpLRO2NpU
Bergamo Post - 14 marzo 2016
http://www.bergamopost.it/vivabergamo/funicolare-san-vigilio/
 _________________________

 

Ipotesi sulle origini di Bergamo e della sua

"denominazione".

Acquaforte di Claudio Brembilla - Città Alta

Grazie agli scritti di Livio è legittima l'ipotesi di B. Belotti (storico 1877 - 1944) che pensa ad una presenza protostorica di Liguri ed Umbri (non la stirpe umbra storica mediterranea) nel territorio bergamasco, sostenuta appunto dal passo in cui lo storico romano parla di una presenza insubre all'arrivo dei Galli prima e dei Romani poi.

La toponomastica e i ritrovamenti lasciano dunque intendere ad un iniziale insediamento ligure nella zona di Bergamo, senza una vera e propria fondazione né una struttura urbanistica.
Esattamente come è avvolto nell'ombra della storia la nascita e l'origine di Bergamo, così è solo ipotetica la collocazione di Barra nel colle della Fara e tutte le elucubrazioni che ne seguono (tra cui la sua data di fondazione preromana che il Belotti attesta intorno all'anno 1200 a.C.).

A livello cronologico, nella zona è identificabile soltanto la cultura fortemente indoeuropeizzata di Golasecca, nella prima Età del Ferro (900 a.C.) caratterizzata da nuclei tribali rurali di limitata estensione
Probabilmente Bergamo non assunse i connotati di città vera e propria nemmeno durante il periodo in cui gli Etruschi si stanziarono ed esercitarono la propria influenza culturale nella pianura padana nel VI a.C., proprio come è in dubbio l'idea di una conquista etrusca dell'Italia settentrionale.

E' oggetto di discussione inoltre se gli Etruschi siano i portatori della civiltà del Ferro; la cultura del ferro sembra infatti precedente agli Etruschi e nella nostra zona era già presente appunto con la cultura golasecchiana, esperienza eneolitica di area ligure.

La dodecapoli etrusca di cui parlano Tito Livio (scrittore romano 59 a.C. - 17 d.C.) e Diodoro (storico greco ca. 90 a.C. - 27 a.C.) sembra essere molto lontana dalla realtà storica dei ritrovamenti archeologici così come il processo di colonizzazione del popolo nel territorio.
La presenza etrusca a Bergamo non è quindi da intendere come una dominazione politica vera e propria, ed è da escludere l'ipotesi che fosse sede di un lucumone o comunque parte della dodecapoli.

Per quanto riguarda la presenza di costruzioni in pietra e dell'edificazione della prima cinta muraria dell'insediamento, anche tale ipotesi risulta inattendibili ad un suo confronto storico.
Se è vero infatti che l'abilità edilizia etrusca eccelse nelle costruzioni militari e nell'architettura funebre, mentre per questi utilizzavano le pietre, per le abitazioni cittadine usavano legno e terra (cotta o cruda); questo contrasta con la tesi del Belotti secondo cui gli Etruschi edificarono la prima Bergamo in pietra e la fortificarono (perché fortificare un piccolo borgo di interesse economico e politico limitato? Un borgo che lo stesso Plinio descrive "Etiamnum prodente se altius quam fortunatius situm").

Nel IV secolo a.C., secondo le testimonianze dello storico romano Tito Livio, il principe gallo Belloveso (fondatore di Milano), alleatosi con popolazioni insubri già stanziate nel territorio occupò il territorio ad ovest dell'Adda, conquistando l'insediamento di Parra fino all'arrivo, pochi anni più tardi, di alcune migliaia di galli Cenomani che attraversarono le Alpi guidati dal condottiero Elitovio (anche se da un punto di vista archeologico sono stati ritrovati reperti che fanno pensare ad insediamenti celtici già a partire dal V secolo a.C.).
Insediatisi nella pianura padana occuparono le zone di Bergamo, Brescia, Verona e Vicenza, cambiando definitivamente il nome di Parra in Bergheim che divenne la loro città più importante grazie alla sua posizione strategica  ( il fatto che gli storici antichi di riferiscano a Bergamo con il termine latino oppidum indica che, oltre ad essere un centro fortificato con capanne e abitazioni varie, l'insediamento doveva avere un mercato ed ospitare una sede di potere politico-amministrativo rilevante).

Il loro rapporto con gli Etruschi presenti nel territorio sembra essere stato dapprima un rapporto di convivenza e collaborazione: gli Etruschi si servivano infatti dei Galli come intermediari nei commerci con l'Europa centrale.

Nonostante questo non escluda la possibilità di conflitti tra le due culture (e quindi la cacciata degli Etruschi da parte dei Galli invasori di cui parla Marco Giuniano Giustino, storico romano dell'epoca degli Antonini ), sembra che l'evento sia avvenuto in maniera diversa, meno drammatica e repentina, trattandosi più di un lento prevalere dell'elemento celtico divenuto definitivo con l'arrivo dei Senoni oltre il Po.

A proposito del nome dato dai Cenomani alla nostra città, l'etimologia del nome è ancora incerta; è messa in relazione con la voce gotico-germanica berg (monte) ed heim (casa,roccaforte) (considerato il fatto che i Cenomani erano di origine gallica orientale, o quasi germanica), mentre un'ulteriore ipotesi la riconduce alla divinità Bergimos, considerato dai Galli celtici e dai Cenomani come il dio delle alture.

Della civiltà cenomane non si sa quasi nulla, ma certo essi non erano agricoltori nomadi e nella loro religione doveva essere importante il culto di deità femminili, le Matres.

Stando agli scritti di Polibio (storico greco 206 a.C. - 124 a.C.), l'agricoltura presso i Cenomani era molto fiorente così come il potenziale demografico celtico, mentre l'organizzazione urbana era sostituita dal sistema di vita diecistico (per villaggi).

La città, poco dopo il 390 a.C. divenne teatro della sconfitta dei Galli Senoni (popolazione celtica stanziatasi sulla costa orientale dell'Italia) guidati da Brenno, reduci dal sacco di Roma.

Considerando la città un'ottima e difendibile roccaforte,  punto strategico per il ripristino e l'organizzazione delle sue truppe, il condottiero gallo chiese la resa di Bergamo e la sua sottomissione.
Al rifiuto, la espugnò e la rase al suolo edificando il proprio castello sulla collina di Breno (oggi Sombreno, nel comune di Paladina).
L'impero romano, ancora scosso per l'umiliazione subita (il sacco di Roma del 390 a.C. fu considerato da tutti gli storici come l'evento più traumatico della storia di Roma), decise di inviare il proprio console Tito Manlio alla testa di un esercito per eliminare la minaccia gallica definitivamente e rimediare allo smacco subito.
Secondo la leggenda il console sfidò Brenno ad un duello evitando lo scontro sul campo tra i rispettivi eserciti (andando contro le direttive dell'Impero) e costringendo lo stesso condottiero alla resa in caso di sconfitta.
Il duello fu vinto dal condottiero romano che, vinto il nemico, ne prese il collare (torque) e da allora fu ricordato come Tito Manlio Torquato; il gallo, per il disonore di aver perso ed aver conservato la vita, si annegò nel fiume che da lui prese il nome di Brembo.
Tratto da http://historiadibergamo.blogspot.it/2013/05/le-origini-e-le-incursioni-galliche.html

------------------------- 


Bergamo, da un gregge di 200 pecore la polvere da sparo per la Serenissima



È una storia scoppiettante. Ad alto contenuto incendiario. Una storia dimenticata o forse sconosciuta, ma pirotecnica. È la storia della polvere da sparo. Bergamo ne è stata, per certi versi la capitale, nel Cinquecento. Le polveriere venete sono lì a ricordarcelo. Ma non è dei cosiddetti «caselli della polvere» che vogliamo parlare.

Di queste testimonianze del periodo della Serenissima si è occupato tempo addietro anche il giornalista Pino Capelli in una documentatissima pubblicazione per il Lions Club Bergamo Host edita nel 1987: il sodalizio si era fatto promotore del restauro delle stesse polveriere.

Nella pubblicazione si parla anche della «polverista», la fabbrica della polvere, già sede dello stabilimento tessile Reich poi trasformato in zona residenziale (via Casalino - via Martiri di Cefalonia).

Il raggio della nostra ricerca si restringe ora alla cosiddetta «polvere nera», una miscela esplosiva composta da tre elementi essenziali: carbone vegetale, zolfo e salnitro.

E la produzione di quest’ultimo era dovuta nientemeno che al «lavoro» delle pecore, i cui allevamenti prosperavano tanto nelle valli quando in pianura e persino a Bergamo. Ovini già definiti da raccolte e trattati del Settecento le «pecore del salnitro».

Ma cosa c’entra questo aspetto diremmo agreste, bucolico, con la pericolosa polvere che alimentava pistole, fucili e cannoni durante la Serenissima, ma anche molto tempo prima? 

Lo scopriremo più avanti. Va anzitutto ricordato che la polvere da sparo, in origine chiamata «polvere pirica» o «polvere nera», venne utilizzata nell’antichità per scopi incendiari, ma anche per singolari giochi pirotecnici. Il suo utilizzo come propellente per cartucce e munizioni delle armi da fuoco iniziò nel ’300 e per oltre cinque secoli rimase l’unico esplosivo utilizzato.

La polvere nera è di certo il più antico esplosivo deflagrante che non ha bisogno di ossigeno esterno, in quanto il salnitro è un comburente. Si dice che la sua invenzione spetti (manco a dirlo) ai cinesi nel IX secolo, che iniziarono a usarla per scopi offensivi dall’XI secolo. Alcuni storici del XVI secolo nelle loro pubblicazioni parlano del salnitro come «sale della China». Per costoro la polvere era ottenuta miscelando vari elementi già prima dell’Era Cristiana, divulgati ai popoli mongoli e da qui agli arabi e ai greci del Basso Impero. Le Crociate in Oriente permisero di far conoscere la polvere anche ad altre genti.

Verso la fine del 1500 la composizione ottimale della polvere era così definita nei testi dell’epoca: «Sei parti di salnitro, una di carbon dolce, una di zolfo». 

Per carbone e zolfo, importati direttamente dai luoghi di produzione, non c’erano particolari problemi di approvvigionamento. Problemi invece erano legati al salnitro. Ma per fortuna - per tornare alla domanda iniziale - c’erano le pecore. Infatti in natura il salnitro si può trovare sotto forma di efflorescenze in ambienti umidi, cantine, grotte, stalle, dove è possibile l’azione dei batteri nitrificanti. Ma Venezia non aveva grandi depositi naturali dove ricavare l’elemento, così dovette escogitare un altro sistema. Bergamo gli venne in soccorso con le nitriere. In alcuni capannoni («tezzoni») si raccoglieva la terra ricca di rifiuti organici (in genere escrementi di greggi di pecore) che veniva diluita con acqua, fatta decantare in appositi impianti con l’uso di caldaie; quindi si ricavava il salnitro grezzo.  

I tre componenti dovevano poi essere ridotti finemente in polvere, con macine e mortai azionati da cavalli o a mano, e mescolati insieme; la polvere bagnata, passata con appositi setacci (crivelli) assumeva infine l’aspetto di piccoli grani, e a seconda dello spessore detta grossa o fina. Proprio così. Dall’urina delle pecore si produceva il salnitro. 

«A Bergamo si incominciò la costruzione del tezzone del salnitro nel 1573 – scrive Capellini – ma i lavori vennero terminati solo nel 1588. L’edificio si trovava nel Prato di Sant’Alessandro, a non molta distanza dall’Ospedale Maggiore o di San Marco. L’area occupata era quella oggi compresa tra la banca Popolare di Bergamo e l’incrocio fra viale Vittorio Emanuele e via Tasca».

Il tezzone al Prato di S.Alessandro in uso fino all’Ottocento. L’ingresso era dominato dal leone di San Marco e dagli stemmi del doge, del provveditore alle artiglierie, dei rettori. Altre tezze furono costruite a Osio Sotto e a Spirano.

Nella Bergamsaca si giunse fino a otto «tezzoni», ognuno dei quali doveva contenere un gregge di almeno 200 pecore. Altre fonti rilevano che dove oggi si trova la Borsa Merci nel Cinquecento, si trovava un «tezzone» del salnitro, un grande capannone dove venivano appunto ricoverati gli animali. Ignari di come persino dai loro bisogni fisiologici si potesse ricavare una ricchezza esplosiva.

Emanuele Roncalli 

Tratto da L'Eco di Bergamo - 26 settembre 2014



 


--------------------






La quinta porta (segreta) delle Mura


 

Quante porte ha la nostra città? E dove sono dislocate o nascoste? È facile chiamare o cercare S. Agostino, S. Giacomo, S. Lorenzo o S. Alessandro (spesso senza neanche indicare il termine Porta). Ma, se dovessimo dirvi: «Ci troviamo alla Porta del Mattume o alla Porta della Colombina o a quella Penta», di certo sarebbe un po’ più difficile. E se invece vi citassimo la Porta del Soccorso, la quinta delle Porte di Bergamo realizzate con la cinta bastionata veneziana (1561-1695)? Nulla? Allora vi aiutiamo a scovarla. E a scoprirne l’affascinante storia.


 
Innanzitutto, si trova nel Forte di San Marco, proprio a metà tra il Forte Superiore e Inferiore. Si tratta di due Forti composti tuttora da baluardi e il nostro accesso misterioso è ubicato tra quello Pallavicino e quello di Castagneta. Se ancora non si capisse di cosa stiamo parlando, basti sapere che nel Baluardo di Castagneta è inserito l’Orto Botanico, accessibile dalla scaletta posta a fianco di una delle due polveriere veneziane, affacciata su Via Beltrami; se si prosegue, proprio in prossimità del Roccolino, si trova la via Sotto le Mura di Sant’Alessandro, che è esclusivamente pedonale. Bisogna percorrerla e, prima di reimmettersi su strada (quella che porta a San Vigilio), si nota, a sinistra, una bella cancellata e, in lontananza, si profila un edificio con un grande portale ligneo che chiude un accesso.
Eccola, quella era l’antica Porta del Soccorso, la quinta del sistema fortificato della Serenissima, la propaggine estrema dei suoi possedimenti di terraferma, l’ultima possibilità di salvezza e riparo per la guarnigione militare del quartiere generale bergamasco (il Forte di San Marco, in cui stavano gli alloggiamenti dei soldati e i ricoveri per il materiale bellico), che tramite un passaggio coperto portava al riparo, sulla sommità del castello di San Vigilio, detto Capella. La porta consentiva, insomma, tramite un sotterraneo, di entrare nel cuore del Forte di San Marco, chiave di volta della difesa dell’intera fortezza. In situazioni normali, nessuno la attraversava. A quei tempi, la porta, proprio per la sua importanza strategica, era protetta, oltre che dalla sua posizione occultata nella radura dei colli e dalla fossa antistante (oggi coperta e superata nel dislivello dai curvoni che portano a San Vigilio), anche dai cannoni posti nei locali cannoniere, pronti a sparare dai fianchi dei due baluardi in cui era incassata.
Non è affatto monumentale come le altre quattro, a causa della sua funzione preponderante, ovvero quella difensivo-logistica: si notano, al di sopra della sua imposta, le fessure che ospitavano i bolzoni, cioè le travi del possente ponte levatoio alzate tramite carrucola interna, oppure la cura dedicata ai particolari strutturali, al solo fine di garantirne stabilità, sicurezza e allo stesso tempo permettere l’accesso a quella che era considerata l’ultima via di fuga in caso di assedio disperato.
La proprietà del sito oggi è privata, quindi non possiamo sapere come si articolino attualmente i locali all’interno e se siano ancora più o meno riconoscibili spazi di manovra, vie e accessi, ma ricordiamo che spesso per “via coperta” si fa riferimento anche a percorsi pedonali o carrai inseriti entro alte cortine murate e a cielo aperto, le cui murature sono talmente alte da non permettere di scorgere nulla all’interno.
19 febbraio 2016
Tratto da http://www.bergamopost.it/vivabergamo/la-quinta-porta-segreta-delle-mura-di-bergamo/
------------------------

Ma dov’erano una volta i bordelli a Bergamo?

 
 

Un tempo l’ombelico di Bergamo era Piazza Vecchia, frequentata da mercanti, soldati, viaggiatori e cittadini: fungeva da volano per tutte le attività più importanti e le condiva con diletti e piaceri di ogni tipo, culinari, ludici e… carnali.

Il Quarterolo in via Rivola. Proprio lì a due passi, dietro la chiesupoletta di San Michele all’Arco, sempre più mortificata dalla mole del nuovo Palazzo Pubblico, ora Biblioteca Mai, nello spiazzo che oggi è un parcheggio per auto e che spazia tra Via Rivola e la scaletta che scende in Via Tassis, vi era il Quarterolo di Bergamo alta, in pratica il locho publico.
 
 
 
E aveva pure un’anticamera, dato che sul cimiterino della chiesa vi si svolgevano anche “funzioni sociali”, tra cui incontri amorosi tra avventori e donne di poco ritegno. E fu così che nel 1561 il bon ton cittadino non ce la fece più a reggere e, per sopravvenuta decenza, si obbligò il parroco della chiesetta a tener chiusa la porta che guardava versus pratum pustribuli, almeno durante le funzioni religiose, «per evitare che sospiri e lamenti disturbassero il corretto e mesto andamento delle funzioni». Il nome di locho publico, quindi, indicava il pubblico bordello di proprietà comunale, che dal 1497 aveva imposto di confinare le meretrici, fino ad allora libere professioniste sparse per le case e le strade della città. Anche nel 1505 e nel 1554 la sua presenza viene attestata da alcuni abitanti, che indicano la loro abitazione come «appresso il bordel» o «in postribulo».

 


Il Comune era proprietario dello stabile dunque, consegnato in appalto ai privati dietro la sottoscrizione di contratti della durata di cinque o sette anni, ma non sempre gli affari andavano a gonfie vele né la gestione era troppo oculata: ai primi del Cinquecento si legge infatti nel libro dei debiti del Comune che un tal Francesco Licini, proprio a causa di una conduzione dissennata, venne costretto a recedere dal contratto quinquennale dopo soli due anni e a riconsegnare l’immobile con relative occupanti al Comune. Ci fu quindi una nuova gara d’appalto per la gestione del bordello, ma solo nel 1505, e così nel frattempo le prostitute dovettero esercitare a cielo aperto: si appostarono presso la fontana della Boccola, lungo una via di alto transito in entrata e in uscita, ma anche lì pare non trovarono pace, dato che si volle preservare la vista ed il decoro delle donne cosiddette onorate, che fossero nobili o popolane o inservienti delle prime, intimorite da quella scomoda e oltraggiosa presenza.

Con la nuova gestione, le donne di malaffare poterono nuovamente relegarsi in San Michele, sotto pena di frusta, berlina e bando dalla città e, anche se la legge non permetteva l’esercizio della libera professione, di fatto la tollerava; negli archivi cittadini, suddivisi per vicinia, si rinvengono curiosi nomi femminili privi del cognome o della qualifica professionale, ma simpaticamente affiancati da vivaci soprannomi che paiono parlare per loro: la Casalenga, la Semperbona, la Greca, la Franzona de la platea, la Maria dicta bonina, la Barboina, la Afra, la Catarina dicta longona, la Scamfarlina.

Era comunque utile che tale attività fosse ben distribuita in città, per non creare folla nel bordello pubblico e accontentare tutti indistintamente. Anche per questo motivo gli obblighi di riconoscibilità, diversi per ogni epoca storica, erano frequentemente disattesi: in epoca viscontea l’abbigliamento consisteva in una mantellina bianca con l’effige di una scrofa o di una vacca; con Venezia una mantellina gialla in fustagno, dato che il giallo è il colore negativo per antonomasia, legato al tradimento di Giuda e al popolo ebraico, così come accadeva a Venezia, dove sin dal Quattrocento le donne meretrici dovevano portare fazzoletto e calze gialle.




Tre in via San Lorenzo. Un altro tracollo finanziario toccò poi al nostro antico bordello, quello del mezzano milanese, trapiantato in bergamasca, che «si giocò il bordello perdendolo a bigliardo e finendo in disgrazia fino a vendere verdura su un banchetto in Città Alta». Non sappiamo fino a quando quei locali restarono attivi, ma molti bergamaschi di città alta raccontano (col sorriso un pochetto imbarazzato e a bassa voce) di come ai tempi dell’entrata in vigore della legge Merlin (1959) erano tre i loci publici sul colle, tutti dislocati in fila indiana lungo la Via San Lorenzo ai civici 18, 20 e 22. Poi c’è chi infioretta la storia e racconta che l’ordine dei numeri giustificava la bellezza delle ospiti e che simbolicamente, chi saliva da Bergamo bassa a Bergamo alta per far loro visita, se voleva il meglio doveva continuare ad inerpicarsi sulla salita, quella rampa che parte dopo poco il prato della Fara per arrivare alla torre del Gombito, per giungere al top, per qualità e quindi prezzo, quindi al civico 22. Oppure altri ci hanno solertemente fatto sorridere nel confidarci che i curiosi e tutti diversi comignoletti che solo quell’edificio vanta in Città Alta, non abbiano solamente una funzione decorativa, ma che fumassero in caso che la rispettiva stanza fosse occupata, o al contrario lamentassero la mancanza di compagnia mentre attendevano che qualcuno “attizzasse il focolare” per poter scaldare quelle rimaste vuote e desolatamente sole.

In ogni caso, il veto non limitò la professione, ma anzi la spalmò su strada, dove è ancora oggi: le donne dapprima si appostarono nei pressi della casermetta di S. Agostino presso il parco sulle mura (luogo calpestato anche dalla mitica e compianta “Lupa”), poi via via in Bergamo bassa all’esterno del mercato ortofrutticolo in fondo a Via Paleocapa).

Il Paradiso in via Cattaneo. 

La Casa del Pecat in via San Salvatore. Ad essere onesti, però, in Bergamo alta c’era un altro edificio maliziosamente denominato “Casa del pecat“ fino agli anni Settanta del secolo scorso e attualmente residenza di numerose famiglie per bene della città: è lo stabile ubicato in Via San Salvatore, angolo via Arena. Non se ne conosce la vera destinazione (bisca, postribolo, contrabbando), ma se ci affidassimo ad una testimonianza orale locale andremmo sul sicuro. Lo stesso in Bergamo bassa nell’attuale via Serassi, vicino al Cimitero, dove la Villa delle Rose oggi è un cheto e serafico Centro per Anziani (intendiamoci, che giocano solo a carte e organizzano candide gite fuori porta).

Il Casino dei Nobili in via XX Settembre. Per un target un pochino più elitario, fatto di carrozze carrozzelle aristocratici e “donzelle”, ricordiamo anche il Casino dei Nobili della Contrada di Prato attivo fino al 1882, oggi via XX Settembre, quello che ha tuttora a fianco un passaggio pubblico, che già allora vedeva il nostro municipio versare una tassa al proprietario proprio per garantirne la fruizione del transito.

Il Paradiso in via Cattaneo. Ma, dato che Bergamo conta tre anime, Alta, Bassa e Colli, anche quest’ultimi non restarono a bocca asciutta, potendo vantare – si bisbiglia - anche loro Il Paradiso. Sì, proprio la residenza che oggi è un pio seminario maschile!
Bergamopost - 9 febbraio 2016

Tratto da http://www.bergamopost.it/vivabergamo/ma-doverano-una-volta-i-bordelli-a-bergamo/

 

Nessun commento:

Posta un commento

Prefazione

Nei miei ottant'anni di vita ho letto, ascoltato e, qualche volte ricordato "storie" accadute a persone e luoghi  e che, ri...