La Strage di Vergarolla 1946.
La strage di Vergarolla, (in croato Eksplozija na Vergaroli), fu causata dall'esplosione di materiale bellico, avvenuta il 18 agosto 1946 sullaspiaggia di Vergarolla a Pola.
L'esplosione provocò la morte accertata di 65 persone.
In quel periodo l'Istria era rivendicata dalla Jugoslavia di Tito, che l'aveva occupata fin dal maggio 1945. Pola invece era amministrata a nome e per conto degli Alleati dalle truppe britanniche, ed era quindi l’unica parte dell'Istria al di fuori del controllo jugoslavo.
Le responsabilità dell'esplosione, la dinamica e perfino il numero delle vittime sono tuttora fonte di accesi dibattiti. L'inchiesta delle autorità inglesi stabilì che "gli ordigni furono deliberatamente fatti esplodere da persona o persone sconosciute".
Il 18 agosto 1946, sulla spiaggia di Vergarolla (Pola), si sarebbero dovute tenere le tradizionali gare natatorie per la Coppa Scarioni, organizzate dalla società dei canottieri "Pietas Julia".
La manifestazione aveva l'intento dichiarato di mantenere una parvenza di connessione col resto dell'Italia, e il quotidiano cittadino "L'Arena di Pola" reclamizzò l'evento come una sorta di manifestazione di italianità.
La spiaggia era gremita di bagnanti, tra i quali molti bambini. Ai bordi dell'arenile erano state accatastate - secondo la versione più accreditata - ventotto mine antisbarco - per un totale di circa nove tonnellate di esplosivo - ritenute inerti in seguito all'asportazione dei detonatori.
I documenti delle indagini della Corte Militare di Inchiesta, conservati negli archivi di Londra, e recentemente utilizzati per la prima volta nel volume dello storico Gaetano Dato dedicato alla strage, parlano invece di 15-20 bombe antisommergibile tedesche, accompagnate da tre testate di siluro, quattro cariche di tritolo e cinque fumogeni. Alle 14,15 l'esplosione di questi ordigni uccise diverse decine di persone. Alcune rimasero schiacciate dal crollo dell'edificio della "Pietas Julia". Secondo le rilevazioni di Dato, basate sui documenti della polizia alleata, della corte militare di inchiesta, dei cimiteri di Pola e dell'anagrafe di Pola, i morti identificati furono 65, i resti ritrovati corrispondevano a 109 o 110 o 116 diversi cadaveri, e 211 furono i feriti.
Quasi un terzo erano bambini o avevano meno di 18 anni. Sembrano inoltre accreditati cinque anonimi dispersi.
Il boato si udì in tutta la città e da chilometri di distanza si vide un'enorme nuvola di fumo.
I soccorsi furono complessi e caotici, anche per il fatto che alcune persone furono letteralmente "polverizzate".
Questa è una delle cause per cui non si riuscì a definire l'esatto numero delle vittime, tuttora controverso.
Il modo di riportare la notizia della strage di Vergarolla nella stampa italiana in qualche modo può essere considerato un indicatore della rovente temperie politica dell'epoca, nonché della difficoltà di recepire notizie da una zona ancora formalmente parte del territorio italiano, ma di fatto separata da esso.
La prima segnalazione del quotidiano del PCI l'Unità fu del 21 agosto 1946, a esequie avvenute.
Il titolo è "Gli anglo-americani responsabili della strage di Pola", ed in esso si dà spazio alla notizia secondo cui il vescovo di Pola avrebbe "stigmatizzato con roventi parole le autorità angloamericane, che presidiano la zona, chiamandole "responsabili" della tragedia per non aver rimosso le mine dalla spiaggia, dove erano state gettate dalla marea, per non averle disinnescate dopo averle lasciate sulla spiaggia". La tesi del quotidiano - nonostante i vari sospetti sull'ipotesi dell'attentato doloso - è che si sia trattato di una disgrazia, dovuta all'incuria degli angloamericani.
Il numero delle vittime è stabilito in 62.
Il giorno successivo, l'Unità riportò un "rapporto telegrafico della Camera del Lavoro di Pola" secondo il quale il numero delle vittime sarebbe salito a "oltre 100", ma la tesi è sempre quella della "sciagura dovuta ad incuria dei colpevoli".
L'articolo segnala la "giusta indignazione della popolazione di Pola e di tutta l'Italia", affermando che il consiglio municipale della cittadina istriana avrebbe votato un ordine del giorno "di protesta".
L'inchiesta inglese
Una pagina della relazione finale della commissione d'inchiesta inglese.
Il comando inglese, attivò immediatamente la Polizia Civile. I documenti di quelle indagini sono conservati a Washington e mostrano che l'inchiesta sul luogo della strage e attraverso le testimonianze raccolte spinsero le autorità, una settimana dopo, a istituire una Corte Militare d'inchiesta per verificare se fu dolo o incidente.
Né la polizia, né la Corte, riuscirono a determinare le responsabilità della strage, aumentando i dubbi su alcune circostanze.
La relazione finale della Corte raggiunse le seguenti conclusioni:
· Gli ordigni erano stati messi in stato di sicurezza, ed in seguito controllati varie volte, sia da militari italiani, sia alleati. Un ufficiale britannico di nome Klatowsky affermò di aver ispezionato tre volte le mine - l'ultima il 27 luglio - concludendo che le stesse potessero essere fatte esplodere solo intenzionalmente.
· Testimoni diretti - fra i quali uno dei militari inglesi feriti - avevano affermato che poco prima dell'esplosione avevano udito un piccolo scoppio e visto un fumo blu correre verso le mine.
· Il comandante della 24ª Brigata di fanteria inglese - M.D.Erskine - segnalò che le mine non erano né recintate né sorvegliate, proprio perché ritenute inerti e non pericolose.
Erskine espresse nella relazione finale il parere secondo cui "Gli ordigni sono stati deliberatamente fatti esplodere da persona o persone sconosciute" ("The ammunition was deliberately exploded by person or persons unknown").
"L'Arena di Pola" ribadì varie volte l'argomento: "Stando così le cose, le mine non possono essere scoppiate da sole senza l'intervento di alcuno". La cittadinanza ebbe la netta impressione che i militari alleati agissero con poca determinazione nella ricerca dei colpevoli, ed essendosi maturata la convinzione che Pola fosse una sorta di pedina di scambio nel gioco delle potenze vincitrici della guerra, tutto ciò esacerbò ulteriormente gli animi.
È da notare che il quotidiano comunista italiano in quegli stessi giorni conduceva una continua campagna di stampa in difesa degli interessi jugoslavi nella regione, contro - dall'altra parte - "i servi del fascismo e dell'Italia fascista" che contrapponendosi alla Jugoslavia assieme agli Stati Uniti avevano portato l'Europa sull'orlo di una nuova guerra.
La Nuova Stampa di Torino diede la notizia il 20 agosto, intitolando "Sventura a Pola" e inserendo nel sommario l'interrogativo: "Si tratta di un attentato?"
Le ipotesi sulle cause e le responsabilità
Le ipotesi sulle cause e le responsabilità delle esplosioni iniziarono a formarsi fin dalle ore immediatamente successive alla tragedia.
Esse possono essere così riassunte:
L'ipotesi dell'incidente. Nei memoriali di alcuni testimoni del tempo, si affermò che nelle prime concitate ore si parlò di una tragica fatalità dovuta all'incauto comportamento di qualcuno dei presenti oppure ad un fenomeno di innesco delle cariche esplosive causato dal caldo: "Quando arriva la voce della tremenda disgrazia, sento dire che forse qualcuno può aver acceso
il fornello per far da mangiare, troppo vicino alle mine"[40]. Per decenni tale ipotesi venne spesso proposta - all'interno dello stesso scritto - in alternativa a quella dell'attentato, senza però una netta prevalenza dell'una o dell'altra.
L'ipotesi dell'attentato terroristico. I primi ad escludere in un documento la possibilità di un incidente furono - come si è già visto - gli inquirenti inglesi nel periodo immediatamente successivo alla strage. Ciò non fece che alimentare i sospetti di una parte dei polesani, che ragionando sulla base del cui prodest puntarono immediatamente il dito contro gli jugoslavi: si disse quindi che la strage di Vergarolla fosse stato un attentato organizzato da chi aveva interesse a mandar via la popolazione di lingua italiana dalla maggiore città istriana. Lo stesso sindaco di Pola Luciano Delbianco durante le celebrazioni del 2004 suffragò l'ipotesi dell'attentato:
«Quel 18 agosto 1946 ignobili e ancora ignoti sabotatori attivarono a distanza nove tonnellate di esplosivo contenuti nelle mine, residuati di guerra, sparse lungo la spiaggia provocando un'ecatombe»
(Commemorazione a Pola: la "verità" sulla ferita di Vergarolla, comunicato stampa dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, 19/08/2004. Nella memorialistica di molti esuli di Pola l'ipotesi assume spesso i tratti di assoluta certezza:«In una soleggiata giornata estiva avvenne un atto terroristico mai rivendicato. Durante una manifestazione nautica di stampo patriottico nove tonnellate di tritolo contenute in mine subacquee, accatastate sulla riva come residuati bellici, disinnescate da tre squadre di artificieri, per effetto di una mano criminale che le riarmò, detonarono in devastante esplosione.
Morirono 110 persone, giovani e bambini (...). Fu per gli istriani un chiaro segnale: andate via!»
Lo storico Gaetano Dato, nel primo volume che abbia mai studiato in maniera sistematica la strage di Vergarolla, propone di cercare il movente prima di tutto nel contesto più ampio della transizione fra secondo conflitto mondiale e Guerra Fredda. In particolare, un'ampia documentazione americana, inglese e italiana dimostra che l'Italia avesse tenuto aperta, fino all'agosto del 1946, una opzione militare per contrastare l'espansionismo jugoslavo. Molte erano le armi che arrivavano in Istria attraverso Pola. La strage potrebbe dunque essere stata fatta per contrastare questa resistenza, che aveva i suoi giornali clandestini, come il Grido dell'Istria, e che proprio fino a pochi giorni prima della strage aveva fatto i primi morti fra le file dei sostenitori di Tito nel centro della penisola istriana.
Dopo l'esplosione, quella resistenza si limitò infatti al sabotaggio e alla diffusione della stampa clandestina.
Sono da rilevare anche alcune posizioni alternative, che arrivano ad ipotizzare un interesse di "gruppi nazionalisti italiani" ad organizzare la strage, in accordo con lo Stato italiano, al fine di mettere in cattiva luce la Jugoslavia, impegnata nelle trattative di pace[44] o addirittura al fine di avviare un conflitto tra Stati Uniti e Jugoslavia, vista la tensione che portò due giorni dopo gli Stati Uniti a dare un ultimatum a Tito dopo l'abbattimento di aerei americani e l'uccisione di alcuni soldati USA lungo la frontiera italo-jugoslava.
Marzo del 2008, "Il Piccolo" pubblicò una serie di quattro volumi sulla storia di Trieste, a cura di Fabio Amodeo e Mario J. Cereghino.
Sulla base dei documenti del Public Record Office di Kew Gardens (Londra) - desecretati recentemente - i due autori ricostruirono il complesso quadro storico delle vicende che interessarono Trieste, la Venezia Giulia e l'Istria fra il 1946 e il 1951, assemblando una scelta delle lettere, delle informative e dei dispacci segreti in possesso degli Alleati.
Nel terzo di questi volumi, gli autori riportarono il testo di un'informativa riguardante la strage di Vergarolla, secondo la quale l'esplosione sarebbe stata in realtà un attentato pianificato dall'OZNA (il servizio segreto jugoslavo).
Nell'informativa - datata 19 dicembre 1946 e intitolata "Sabotage in Pola" - si indica anche il nome di Giuseppe Kovacich come agente dell'OZNA, nonché uno degli esecutori materiali dell'attentato stesso[.
Il documento riporta la sigla "CS" che indica una delle formazioni di spionaggio più attive nell'Italia del dopoguerra: il Battaglione 808º per il controspionaggio, con sede a Roma, composto interamente da carabinieri. L'informativa è quindi prodotta da un reparto italiano, a quel tempo al servizio anche dei servizi segreti americani e britannici.
Numerosa nuova documentazione, è stata infine portata alla luce nella recente opera di Dato, che per il suo significato, è stata presentata alla Camera dei Deputati il 13 giugno 2014, in seguito alle interrogazioni al Governo da parte di alcuni onorevoli del Partito Democratico e del Movimento Cinque Stelle, per istituire una commissione di storici che indaghi sulla strage.
Tratto da varie documentazioni.
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Strage di Villarbasse
Uno dei più efferati crimini dell'immediato dopoguerra
La strage di Villarbasse del 20 novembre 1945 è stata uno dei più efferati crimini dell'immediato dopoguerra e, al contempo, un evento simbolo nella storia del diritto penale italiano in quanto ultimo reato comune punito applicando la pena di morte. Venne commessa durante una rapina in una cascina di Villarbasse (in provincia di Torino), dove dieci persone vennero massacrate a bastonate e gettate ancora vive in una cisterna. Gli autori della strage furono quattro siciliani originari di Mezzojuso; uno di loro venne ucciso in un regolamento di conti fra mafiosi in Sicilia prima della cattura.
La Storia
Il 20 novembre 1945 il proprietario della cascina Simonetto di Villarbasse, in provincia di Torino, l'avvocato Massimo Gianoli (nato a Ghemme il 1º novembre 1880), di sessantacinque anni, dirigente dell'Agip Piemonte fino al 1940, stava cenando nella casa padronale acquistata nel 1920, servito dalla domestica Teresa Delfino, mentre nella casa dell'affittuario Antonio Ferrero si festeggiava la nascita di una nipotina e, oltre all'affittuario, erano presenti sua moglie Anna, il genero Renato Morra, le domestiche Rosa Martinoli e Fiorina Maffiotto, più un bimbo di due anni e il nuovo lavorante Marcello Gastaldi.
Quattro uomini – Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D'Ignoti e Pietro Lala (all'epoca degli eventi si celava dietro la falsa identità di Francesco Saporito e aveva lavorato per alcuni mesi nella cascina) – alle otto di sera fecero irruzione nel casale, sequestrando tutti i presenti per compiere una rapina in quanto sapevano che l'avvocato teneva in casa ingenti somme di denaro, poi però a uno dei rapinatori (il basista) cadde improvvisamente per terra la maschera che ne celava il volto. Una delle donne sequestrate ebbe un sussulto e riconobbe in lui l'uomo che, fino a pochi giorni prima, aveva lavorato con loro nella cascina come garzone. I rapinatori, ormai scoperti, decisero allora di uccidere tutti i possibili testimoni e portarono le vittime, una ad una, in cantina e le colpirono con un bastone, gettandole poi in una cisterna per la raccolta dell'acqua piovana che si trovava nell'aia. L'unico a tentare una difesa fu Renato Morra, ex capo partigiano, che riuscì a ferire al volto La Barbera con il filo di ferro col quale gli erano state legate le mani. Vennero uccisi nello stesso modo anche i mariti delle due domestiche, Gregorio Doleatto e Domenico Rosso, che erano venuti in seguito alla cascina alla ricerca delle mogli. Solo il bambino fu risparmiato, in quanto non avrebbe potuto riconoscere nessuno dei criminali.
I rapinatori salirono di nuovo in casa e rubarono 200 000 lire, un paio d'orecchini d'oro e altri oggetti di scarso valore (quattro salami, tre paia di calze, dieci fazzoletti). Giovanni D'Ignoti continuò la vita di tutti i giorni a Torino mentre Puleo, La Barbera e Lala tornarono in Sicilia, a Mezzojuso, dove quest'ultimo fu ucciso in un regolamento di conti fra mafiosi.
Indagini e processo
Dopo otto giorni di ricerche, durante i quali, in un primo momento, si pensò a un rapimento di massa delle persone scomparse, il 28 novembre il giovane mugnaio Enrico Coletto si calò all'interno della cisterna e rinvenne i dieci cadaveri. In una vigna della cascina fu ritrovata una giacca sporca di sangue buttata per terra con un'etichetta su cui c'era scritto "Caltanissetta": questo piccolo ma fondamentale indizio indicava che almeno uno dei banditi era siciliano. Dopo quattro mesi di indagini e dopo una serie di arresti ingiustificati, tra cui il fratello di Renato Morra e un siciliano che aveva fatto il partigiano vicino a Villarbasse e che proprio la sera della strage aveva salvato da un incendio la casa di un vicino a Caltanissetta, i carabinieri guidati dal giovane sottotenente Armando Losco risalirono al D'Ignoti, grazie a un frammento della tessera annonaria che il bandito aveva parzialmente bruciato in una soffitta da lui affittata in via Rombò a Rivoli. Con uno stratagemma (gli fecero credere di essere l'ultimo arrestato invece che il primo) lo indussero a fare i nomi dei complici. Questi, una volta arrestati, confessarono.
Il giornalista Gian Franco Venè ricorda l'episodio nel libro Vola Colomba:
«[...] Quando la polizia alleata s'era intestardita nell'attribuire la strage a una vendetta perpetrata da partigiani che non avevano smesso di combattere per la rivoluzione. Dichiarato lo stato d'assedio tutt'attorno a Villarbasse, luogo del massacro, rastrellate le colline torinesi con mezzi corazzati e pattuglioni in assetto di guerra, arrabattatisi con tutta la potenza della loro organizzazione, gli Alleati avevano concluso che gli assassini erano introvabili perché protetti dai comunisti infiltrati nella polizia e presenti nel governo. A dicembre, tra cene di gala, frastuono di inni nazionali e giochi di alza e ammainabandiera, gli angloamericani restituirono i poteri all'Amministrazione italiana e vi allegarono l'incarico morale di risolvere le indagini sulla strage 'senza precedenti nella storia dell'orrore'.»
Dopo l'arresto furono portati al carcere di Venaria Reale, ma poi furono trasferiti a Le Nuove a Torino; al processo, i rapinatori furono condannati a morte, il 5 luglio 1946. A nulla servì il ricorso in Cassazione: la suprema corte si espresse il 29 novembre dello stesso anno, confermando pienamente le condanne.
Il Capo dello Stato provvisorio, Enrico De Nicola, rifiutò la loro richiesta di grazia, e così il mattino (ore 7.45) del 4 marzo 1947 i tre furono accompagnati dal cappellano del carcere padre Ruggero Cipolla (1911-2006) al poligono di tiro delle Basse di Stura a Torino.[13][14] Poco prima dell'esecuzione della condanna, La Barbera e Puleo gridarono frasi inneggianti ad Andrea Finocchiaro Aprile e all'indipendentismo siciliano[15]. Vennero quindi eseguite, da un plotone di esecuzione formato da poliziotti della città, le ultime condanne a morte irrogate in Italia[4]. All'esecuzione assistettero anche alcuni giornalisti, tra i quali Giorgio Bocca che descrisse l'episodio su la Repubblica in coincidenza del 60º anniversario.
Le vittime
Massimo Gianoli, avvocato, 65 anni
Antonio Ferrero, affittuario, 51 anni
Anna Varetto, moglie di
Ferrero, 45 anni
Renato Morra, genero dei
Ferrero, 24 anni
Marcello Gastaldi,
bracciante, 45 anni
Teresa Delfino,
domestica, 61 anni
Rosa Martinoli,
domestica, 65 anni
Fiorina Marfiotto,
domestica, 32 anni
Gregorio Doleatto, marito di Fiorina Marfiotto
Domenico Rosso, marito di
Rosa Martinoli
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La storia dell’Isola delle Rose
L’Isola delle Rose era una piattaforma artificiale di 400 metri quadrati, costruita dall’ingegnere bolognese Giorgio Rosa nel mare Adriatico, a 11,612 km al largo delle coste di Rimini e 500 metri al di fuori delle acque territoriali italiane.
Il 1º maggio 1968 l’Isola delle Rose (il cui nome ufficiale era Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose) si autoproclamò “Stato indipendente“. L’idea era proprio quella di dare vita ad uno stato senza regole, dove i suoi abitanti potessero vivere accomunati dall’unico grande valore della libertà.
L’Isola delle Rose adottò come propria lingua ufficiale l’esperanto, proprio per sancire in maniera netta la propria sovranità e indipendenza dalla Repubblica Italiana e per ribadire anche il carattere internazionale della nuova Repubblica. Lo stemma era composto da tre rose rosse, con gambo verde fogliato, raccolte sul campo bianco di uno scudo sannitico.
L’Isola delle Rose si era data anche un governo, formato da una Presidenza del Consiglio dei Dipartimenti e da cinque diversi dipartimenti, suddivisi in divisioni e uffici.
L’Isola delle Rose venne occupata dalle forze di polizia italiane il 26 giugno 1968 e fu sottoposta a blocco navale.
Nel febbraio 1969 venne demolita.
Dove si trovava l’Isola delle Nel febbraio 1969 fu
poi demolita Rose
La piattaforma dell’Isola delle Rose sorse 11,612 km al largo della costa italiana, in prossimità di Torre Pedrera, nel comune di Rimini, a 500 metri al di fuori delle acque territoriali italiane. L’Isola delle Rose confinava con acque internazionali, a eccezione del lato sud-ovest, dove avevano invece limite le acque territoriali italiane nel Mar Adriatico. La superficie dell’Isola delle Rose era di 400 metri quadrati, mentre quella delle sue “acque territoriali” era pari a 62,54 km².
Tratto dal Sito L'incredibile
storia dell'Isola delle Rose, un sogno diventato realtà (virgilio.it)
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Alla radio trasmettevano notizie preoccupanti che riguardavano i corsi fluviali del nord del Paese e principalmente la zona di Firenze dove le stazioni pluviometriche registravano valori elevatissimi di caduta pioggia e il conseguentemente ingrossamento di torrenti e dello stesso Arno.
Quasi come fosse un presagio, al teatro Verdi veniva proiettato il film La Bibbia di John Huston, erano I combattenti della notte, Che notte ragazzi! e Viaggio allucinante.
In assenza di comunicazioni ufficiali ci si doveva basare sui telegiornali della sera. Tutti davanti ai televisori: ''c'è stato un terremoto in Friuli. Forse ci sono alcuni morti...". Solo alle prime luci del mattino dopo fu chiaro il quadro. Ovunque distruzione, ovunque case crollate, ovunque morte. Il terremoto aveva squassato il Friuli. E subito partì la solidarietà.
In quei giorni protagonisti furono in primo luogo i giovani friulani che a centinaia partirono per i luoghi colpiti dal sisma nel tentativo di salvare qualche vita umana. Si formarono delle squadre coordinate sul posto dai sindaci, dai Vigili del fuoco e dagli alpini della Julia che intanto si erano subito mobilitati per organizzare delle tendopoli per la notte e per quelle successive. Nei paesi più colpiti dalle scosse furono salvate vite umane, grazie al lavoro - a mani nude - di tantissimi 'angeli'.
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E’ sempre tanta roba. In cambio l’Ambasciatore italiano a Vienna offre la solita neutralità e 200 milioni di lire in oro.
Il Ministro degli esteri Sonnino considera queste le “condizioni minime e indispensabili”.
L’8 aprile le trattative sembrano avviate su un binario morto, ma si prova comunque a proseguirle. I rapporti tra l’Italia e l’Impero asburgico non sono stati sempre all’insegna della cordialità, ma ora stiamo toccando i minimi storici. Per qualche austriaco la nostra offerta potrebbe puzzare di ultimatum.
A Roma si assiste all’ennesima grande manifestazione interventista. E’ un omaggio al Generale francese Pau, giunto a Roma al termine della sua missione in Russia; l’alto ufficiale soggiornerà nella capitale, per poi riprendere la via di Parigi e tornare a combattere i tedeschi.
Già, i tedeschi. Quelli stanno preparando qualcosa e un giornale belga, “La Nouvelle” di Maastricht, afferma di avere un indizio: le armate del Kaiser avrebbero acquistato tutti i cani di Hasselt e starebbero sperimentando gli effetti delle nuove granate a gas.
- Nota italiana all’Austria dove si richiedono
concessioni territoriali in cambio della neutralità.
- Comincia la deportazione e il massacro armeno
nell’impero ottomano
- Tentativo d’assassinio di Hussein Kamel, Sultano
d’Egitto. Un egiziano spara un colpo di rivoltella senza ferirlo.
- Il ministro degli esteri Sonnino, per mezzo dell’
ambasciatore a Vienna, espone al governo austro-ungarico il minimo delle
concessioni politiche e territoriali che l’Italia chiede e ritiene
indispensabili per poter creare una situazione normale e stabile di
reciproca cordialità e di possibile cooperazione futura. Sarà assicurata
in cambio la neutralità italiana nella guerra in corso.
- Grande dimostrazione interventista a Roma per
l'arrivo del generale francese Pau, che torna in Francia da una missione
presso il governo russo.
- Secondo un comunicato ufficiale del governo
tedesco i cannoni catturati sinora al nemico ammontano a 5510: cioè 3300
presi ai Belgi, 1300 ai Francesi, 850 ai Russi, 60 agli Inglesi.
- Venizelos minaccia di ritirarsi dalla vita
pubblica per l'opposizione della Corona, che neppure ha voluto dargli
soddisfazione per una smentita inflittagli dal Governo, e per le polemiche
sulla questione dell'intervento
- Viene respinto l’attacco francese nel distretto
di Woevre
- Scontri dal risultato incerto nei Carpazi
- L’incrociatore tedesco “Prinz Eitel Friedrich”
viene imprigionato a Newport News, Virginia.
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