Storie italiane

La Strage di Vergarolla 1946.

                  

                  

 

La strage di Vergarolla, (in croato Eksplozija na Vergaroli), fu causata dall'esplosione di materiale bellico, avvenuta il 18 agosto 1946 sullaspiaggia di Vergarolla a Pola.

L'esplosione provocò la morte accertata di 65 persone.

 In quel periodo l'Istria era rivendicata dalla Jugoslavia di Tito, che l'aveva occupata fin dal maggio 1945. Pola invece era amministrata a nome e per conto degli Alleati dalle truppe britanniche, ed era quindi l’unica parte dell'Istria al di fuori del controllo jugoslavo.

 Le responsabilità dell'esplosione, la dinamica e perfino il numero delle vittime sono tuttora fonte di accesi dibattiti. L'inchiesta delle autorità inglesi stabilì che "gli ordigni furono deliberatamente fatti esplodere da persona o persone sconosciute".

 Il 18 agosto 1946, sulla spiaggia di Vergarolla (Pola), si sarebbero dovute tenere le tradizionali gare natatorie per la Coppa Scarioni, organizzate dalla società dei canottieri "Pietas Julia".

La manifestazione aveva l'intento dichiarato di mantenere una parvenza di connessione col resto dell'Italia, e il quotidiano cittadino "L'Arena di Pola" reclamizzò l'evento come una sorta di manifestazione di italianità.

 La spiaggia era gremita di bagnanti, tra i quali molti bambini. Ai bordi dell'arenile erano state accatastate - secondo la versione più accreditata - ventotto mine antisbarco - per un totale di circa nove tonnellate di esplosivo - ritenute inerti in seguito all'asportazione dei detonatori.

 I documenti delle indagini della Corte Militare di Inchiesta, conservati negli archivi di Londra, e recentemente utilizzati per la prima volta nel volume dello storico Gaetano Dato dedicato alla strage, parlano invece di 15-20 bombe antisommergibile tedesche, accompagnate da tre testate di siluro, quattro cariche di tritolo e cinque fumogeni. Alle 14,15 l'esplosione di questi ordigni uccise diverse decine di persone. Alcune rimasero schiacciate dal crollo dell'edificio della "Pietas Julia". Secondo le rilevazioni di Dato, basate sui documenti della polizia alleata, della corte militare di inchiesta, dei cimiteri di Pola e dell'anagrafe di Pola, i morti identificati furono 65, i resti ritrovati corrispondevano a 109 o 110 o 116 diversi cadaveri, e 211 furono i feriti.

Quasi un terzo erano bambini o avevano meno di 18 anni. Sembrano inoltre accreditati cinque anonimi dispersi.

 Il boato si udì in tutta la città e da chilometri di distanza si vide un'enorme nuvola di fumo.

I soccorsi furono complessi e caotici, anche per il fatto che alcune persone furono letteralmente "polverizzate".

Questa è una delle cause per cui non si riuscì a definire l'esatto numero delle vittime, tuttora controverso.

Il modo di riportare la notizia della strage di Vergarolla nella stampa italiana in qualche modo può essere considerato un indicatore della rovente temperie politica dell'epoca, nonché della difficoltà di recepire notizie da una zona ancora formalmente parte del territorio italiano, ma di fatto separata da esso.

La prima segnalazione del quotidiano del PCI l'Unità fu del 21 agosto 1946, a esequie avvenute.

Il titolo è "Gli anglo-americani responsabili della strage di Pola", ed in esso si dà spazio alla notizia secondo cui il vescovo di Pola avrebbe "stigmatizzato con roventi parole le autorità angloamericane, che presidiano la zona, chiamandole "responsabili" della tragedia per non aver rimosso le mine dalla spiaggia, dove erano state gettate dalla marea, per non averle disinnescate dopo averle lasciate sulla spiaggia". La tesi del quotidiano - nonostante i vari sospetti sull'ipotesi dell'attentato doloso - è che si sia trattato di una disgrazia, dovuta all'incuria degli angloamericani.

Il numero delle vittime è stabilito in 62.

Il giorno successivo, l'Unità riportò un "rapporto telegrafico della Camera del Lavoro di Pola" secondo il quale il numero delle vittime sarebbe salito a "oltre 100", ma la tesi è sempre quella della "sciagura dovuta ad incuria dei colpevoli".

L'articolo segnala la "giusta indignazione della popolazione di Pola e di tutta l'Italia", affermando che il consiglio municipale della cittadina istriana avrebbe votato un ordine del giorno "di protesta".

L'inchiesta inglese

Una pagina della relazione finale della commissione d'inchiesta inglese.

Il comando inglese, attivò immediatamente la Polizia Civile. I documenti di quelle indagini sono conservati a Washington e mostrano che l'inchiesta sul luogo della strage e attraverso le testimonianze raccolte spinsero le autorità, una settimana dopo, a istituire una Corte Militare d'inchiesta per verificare se fu dolo o incidente.

Né la polizia, né la Corte, riuscirono a determinare le responsabilità della strage, aumentando i dubbi su alcune circostanze.

La relazione finale della Corte raggiunse le seguenti conclusioni: 

·        Gli ordigni erano stati messi in stato di sicurezza, ed in seguito controllati varie volte, sia da militari italiani, sia alleati. Un ufficiale britannico di nome Klatowsky affermò di aver ispezionato tre volte le mine - l'ultima il 27 luglio - concludendo che le stesse potessero essere fatte esplodere solo intenzionalmente.

·        Testimoni diretti - fra i quali uno dei militari inglesi feriti - avevano affermato che poco prima dell'esplosione avevano udito un piccolo scoppio e visto un fumo blu correre verso le mine.

·        Il comandante della 24ª Brigata di fanteria inglese - M.D.Erskine - segnalò che le mine non erano né recintate né sorvegliate, proprio perché ritenute inerti e non pericolose.

 Erskine espresse nella relazione finale il parere secondo cui "Gli ordigni sono stati deliberatamente fatti esplodere da persona o persone sconosciute" ("The ammunition was deliberately exploded by person or persons unknown").

"L'Arena di Pola" ribadì varie volte l'argomento: "Stando così le cose, le mine non possono essere scoppiate da sole senza l'intervento di alcuno". La cittadinanza ebbe la netta impressione che i militari alleati agissero con poca determinazione nella ricerca dei colpevoli, ed essendosi maturata la convinzione che Pola fosse una sorta di pedina di scambio nel gioco delle potenze vincitrici della guerra, tutto ciò esacerbò ulteriormente gli animi. 

È da notare che il quotidiano comunista italiano in quegli stessi giorni conduceva una continua campagna di stampa in difesa degli interessi jugoslavi nella regione, contro - dall'altra parte - "i servi del fascismo e dell'Italia fascista" che contrapponendosi alla Jugoslavia assieme agli Stati Uniti avevano portato l'Europa sull'orlo di una nuova guerra.

La Nuova Stampa di Torino diede la notizia il 20 agosto, intitolando "Sventura a Pola" e inserendo nel sommario l'interrogativo: "Si tratta di un attentato?"

Le ipotesi sulle cause e le responsabilità 

Le ipotesi sulle cause e le responsabilità delle esplosioni iniziarono a formarsi fin dalle ore immediatamente successive alla tragedia.

Esse possono essere così riassunte: 

L'ipotesi dell'incidente. Nei memoriali di alcuni testimoni del tempo, si affermò che nelle prime concitate ore si parlò di una tragica fatalità dovuta all'incauto comportamento di qualcuno dei presenti oppure ad un fenomeno di innesco delle cariche esplosive causato dal caldo: "Quando arriva la voce della tremenda disgrazia, sento dire che forse qualcuno può aver acceso

il fornello per far da mangiare, troppo vicino alle mine"[40]. Per decenni tale ipotesi venne spesso proposta - all'interno dello stesso scritto - in alternativa a quella dell'attentato, senza però una netta prevalenza dell'una o dell'altra.

L'ipotesi dell'attentato terroristico. I primi ad escludere in un documento la possibilità di un incidente furono - come si è già visto - gli inquirenti inglesi nel periodo immediatamente successivo alla strage. Ciò non fece che alimentare i sospetti di una parte dei polesani, che ragionando sulla base del cui prodest puntarono immediatamente il dito contro gli jugoslavi: si disse quindi che la strage di Vergarolla fosse stato un attentato organizzato da chi aveva interesse a mandar via la popolazione di lingua italiana dalla maggiore città istriana. Lo stesso sindaco di Pola Luciano Delbianco durante le celebrazioni del 2004 suffragò l'ipotesi dell'attentato:

«Quel 18 agosto 1946 ignobili e ancora ignoti sabotatori attivarono a distanza nove tonnellate di esplosivo contenuti nelle mine, residuati di guerra, sparse lungo la spiaggia provocando un'ecatombe»

(Commemorazione a Pola: la "verità" sulla ferita di Vergarolla, comunicato stampa dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, 19/08/2004. Nella memorialistica di molti esuli di Pola l'ipotesi assume spesso i tratti di assoluta certezza:«In una soleggiata giornata estiva avvenne un atto terroristico mai rivendicato. Durante una manifestazione nautica di stampo patriottico nove tonnellate di tritolo contenute in mine subacquee, accatastate sulla riva come residuati bellici, disinnescate da tre squadre di artificieri, per effetto di una mano criminale che le riarmò, detonarono in devastante esplosione.

Morirono 110 persone, giovani e bambini (...). Fu per gli istriani un chiaro segnale: andate via!»

Lo storico Gaetano Dato, nel primo volume che abbia mai studiato in maniera sistematica la strage di Vergarolla, propone di cercare il movente prima di tutto nel contesto più ampio della transizione fra secondo conflitto mondiale e Guerra Fredda. In particolare, un'ampia documentazione americana, inglese e italiana dimostra che l'Italia avesse tenuto aperta, fino all'agosto del 1946, una opzione militare per contrastare l'espansionismo jugoslavo. Molte erano le armi che arrivavano in Istria attraverso Pola. La strage potrebbe dunque essere stata fatta per contrastare questa resistenza, che aveva i suoi giornali clandestini, come il Grido dell'Istria, e che proprio fino a pochi giorni prima della strage aveva fatto i primi morti fra le file dei sostenitori di Tito nel centro della penisola istriana.

Dopo l'esplosione, quella resistenza si limitò infatti al sabotaggio e alla diffusione della stampa clandestina.

Sono da rilevare anche alcune posizioni alternative, che arrivano ad ipotizzare un interesse di "gruppi nazionalisti italiani" ad organizzare la strage, in accordo con lo Stato italiano, al fine di mettere in cattiva luce la Jugoslavia, impegnata nelle trattative di pace[44] o addirittura al fine di avviare un conflitto tra Stati Uniti e Jugoslavia, vista la tensione che portò due giorni dopo gli Stati Uniti a dare un ultimatum a Tito dopo l'abbattimento di aerei americani e l'uccisione di alcuni soldati USA lungo la frontiera italo-jugoslava. 

Marzo del 2008, "Il Piccolo" pubblicò una serie di quattro volumi sulla storia di Trieste, a cura di Fabio Amodeo e Mario J. Cereghino.

Sulla base dei documenti del Public Record Office di Kew Gardens (Londra) - desecretati recentemente - i due autori ricostruirono il complesso quadro storico delle vicende che interessarono Trieste, la Venezia Giulia e l'Istria fra il 1946 e il 1951, assemblando una scelta delle lettere, delle informative e dei dispacci segreti in possesso degli Alleati.

Nel terzo di questi volumi, gli autori riportarono il testo di un'informativa riguardante la strage di Vergarolla, secondo la quale l'esplosione sarebbe stata in realtà un attentato pianificato dall'OZNA (il servizio segreto jugoslavo).

Nell'informativa - datata 19 dicembre 1946 e intitolata "Sabotage in Pola" - si indica anche il nome di Giuseppe Kovacich come agente dell'OZNA, nonché uno degli esecutori materiali dell'attentato stesso[.

Il documento riporta la sigla "CS" che indica una delle formazioni di spionaggio più attive nell'Italia del dopoguerra: il Battaglione 808º per il controspionaggio, con sede a Roma, composto interamente da carabinieri. L'informativa è quindi prodotta da un reparto italiano, a quel tempo al servizio anche dei servizi segreti americani e britannici.

Numerosa nuova documentazione, è stata infine portata alla luce nella recente opera di Dato, che per il suo significato, è stata presentata alla Camera dei Deputati il 13 giugno 2014, in seguito alle interrogazioni al Governo da parte di alcuni onorevoli del Partito Democratico e del Movimento Cinque Stelle, per istituire una commissione di storici che indaghi sulla strage.

Tratto da varie documentazioni.

 

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Strage di Villarbasse

Uno dei più efferati crimini dell'immediato dopoguerra

La strage di Villarbasse del 20 novembre 1945 è stata uno dei più efferati crimini dell'immediato dopoguerra e, al contempo, un evento simbolo nella storia del diritto penale italiano in quanto ultimo reato comune punito applicando la pena di morte. Venne commessa durante una rapina in una cascina di Villarbasse (in provincia di Torino), dove dieci persone vennero massacrate a bastonate e gettate ancora vive in una cisterna. Gli autori della strage furono quattro siciliani originari di Mezzojuso; uno di loro venne ucciso in un regolamento di conti fra mafiosi in Sicilia prima della cattura.

La Storia

Il 20 novembre 1945 il proprietario della cascina Simonetto di Villarbasse, in provincia di Torino, l'avvocato Massimo Gianoli (nato a Ghemme il 1º novembre 1880), di sessantacinque anni, dirigente dell'Agip Piemonte fino al 1940, stava cenando nella casa padronale acquistata nel 1920, servito dalla domestica Teresa Delfino, mentre nella casa dell'affittuario Antonio Ferrero si festeggiava la nascita di una nipotina e, oltre all'affittuario, erano presenti sua moglie Anna, il genero Renato Morra, le domestiche Rosa Martinoli e Fiorina Maffiotto, più un bimbo di due anni e il nuovo lavorante Marcello Gastaldi. 

Quattro uomini – Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D'Ignoti e Pietro Lala (all'epoca degli eventi si celava dietro la falsa identità di Francesco Saporito e aveva lavorato per alcuni mesi nella cascina) – alle otto di sera fecero irruzione nel casale, sequestrando tutti i presenti per compiere una rapina in quanto sapevano che l'avvocato teneva in casa ingenti somme di denaro, poi però a uno dei rapinatori (il basista) cadde improvvisamente per terra la maschera che ne celava il volto. Una delle donne sequestrate ebbe un sussulto e riconobbe in lui l'uomo che, fino a pochi giorni prima, aveva lavorato con loro nella cascina come garzone. I rapinatori, ormai scoperti, decisero allora di uccidere tutti i possibili testimoni e portarono le vittime, una ad una, in cantina e le colpirono con un bastone, gettandole poi in una cisterna per la raccolta dell'acqua piovana che si trovava nell'aia. L'unico a tentare una difesa fu Renato Morra, ex capo partigiano, che riuscì a ferire al volto La Barbera con il filo di ferro col quale gli erano state legate le mani. Vennero uccisi nello stesso modo anche i mariti delle due domestiche, Gregorio Doleatto e Domenico Rosso, che erano venuti in seguito alla cascina alla ricerca delle mogli. Solo il bambino fu risparmiato, in quanto non avrebbe potuto riconoscere nessuno dei criminali.

I rapinatori salirono di nuovo in casa e rubarono 200 000 lire, un paio d'orecchini d'oro e altri oggetti di scarso valore (quattro salami, tre paia di calze, dieci fazzoletti). Giovanni D'Ignoti continuò la vita di tutti i giorni a Torino mentre Puleo, La Barbera e Lala tornarono in Sicilia, a Mezzojuso, dove quest'ultimo fu ucciso in un regolamento di conti fra mafiosi.

Indagini e processo

Dopo otto giorni di ricerche, durante i quali, in un primo momento, si pensò a un rapimento di massa delle persone scomparse, il 28 novembre il giovane mugnaio Enrico Coletto si calò all'interno della cisterna e rinvenne i dieci cadaveri. In una vigna della cascina fu ritrovata una giacca sporca di sangue buttata per terra con un'etichetta su cui c'era scritto "Caltanissetta": questo piccolo ma fondamentale indizio indicava che almeno uno dei banditi era siciliano. Dopo quattro mesi di indagini e dopo una serie di arresti ingiustificati, tra cui il fratello di Renato Morra e un siciliano che aveva fatto il partigiano vicino a Villarbasse e che proprio la sera della strage aveva salvato da un incendio la casa di un vicino a Caltanissetta, i carabinieri guidati dal giovane sottotenente Armando Losco risalirono al D'Ignoti, grazie a un frammento della tessera annonaria che il bandito aveva parzialmente bruciato in una soffitta da lui affittata in via Rombò a Rivoli. Con uno stratagemma (gli fecero credere di essere l'ultimo arrestato invece che il primo) lo indussero a fare i nomi dei complici. Questi, una volta arrestati, confessarono.

Il giornalista Gian Franco Venè ricorda l'episodio nel libro Vola Colomba:

«[...] Quando la polizia alleata s'era intestardita nell'attribuire la strage a una vendetta perpetrata da partigiani che non avevano smesso di combattere per la rivoluzione. Dichiarato lo stato d'assedio tutt'attorno a Villarbasse, luogo del massacro, rastrellate le colline torinesi con mezzi corazzati e pattuglioni in assetto di guerra, arrabattatisi con tutta la potenza della loro organizzazione, gli Alleati avevano concluso che gli assassini erano introvabili perché protetti dai comunisti infiltrati nella polizia e presenti nel governo. A dicembre, tra cene di gala, frastuono di inni nazionali e giochi di alza e ammainabandiera, gli angloamericani restituirono i poteri all'Amministrazione italiana e vi allegarono l'incarico morale di risolvere le indagini sulla strage 'senza precedenti nella storia dell'orrore'.»

Dopo l'arresto furono portati al carcere di Venaria Reale, ma poi furono trasferiti a Le Nuove a Torino; al processo, i rapinatori furono condannati a morte, il 5 luglio 1946. A nulla servì il ricorso in Cassazione: la suprema corte si espresse il 29 novembre dello stesso anno, confermando pienamente le condanne.


Il Capo dello Stato provvisorio, Enrico De Nicola, rifiutò la loro richiesta di grazia, e così il mattino (ore 7.45) del 4 marzo 1947 i tre furono accompagnati dal cappellano del carcere padre Ruggero Cipolla (1911-2006) al poligono di tiro delle Basse di Stura a Torino.[13][14] Poco prima dell'esecuzione della condanna, La Barbera e Puleo gridarono frasi inneggianti ad Andrea Finocchiaro Aprile e all'indipendentismo siciliano[15]. Vennero quindi eseguite, da un plotone di esecuzione formato da poliziotti della città, le ultime condanne a morte irrogate in Italia[4]. All'esecuzione assistettero anche alcuni giornalisti, tra i quali Giorgio Bocca che descrisse l'episodio su la Repubblica in coincidenza del 60º anniversario.

Le vittime

Massimo Gianoli, avvocato, 65 anni

Antonio Ferrero, affittuario, 51 anni

Anna Varetto, moglie di Ferrero, 45 anni

Renato Morra, genero dei Ferrero, 24 anni

Marcello Gastaldi, bracciante, 45 anni

Teresa Delfino, domestica, 61 anni

Rosa Martinoli, domestica, 65 anni

Fiorina Marfiotto, domestica, 32 anni

Gregorio Doleatto, marito di Fiorina Marfiotto

Domenico Rosso, marito di Rosa Martinoli

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La storia dell’Isola delle Rose



L’Isola delle Rose era una piattaforma artificiale di 400 metri quadrati, costruita dall’ingegnere bolognese Giorgio Rosa nel mare Adriatico, a 11,612 km al largo delle coste di Rimini e 500 metri al di fuori delle acque territoriali italiane.

Il 1º maggio 1968 l’Isola delle Rose (il cui nome ufficiale era Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose) si autoproclamò “Stato indipendente“. L’idea era proprio quella di dare vita ad uno stato senza regole, dove i suoi abitanti potessero vivere accomunati dall’unico grande valore della libertà.

Di fatto, però, fu una micronazione, mai formalmente riconosciuta da alcun Paese del mondo come nazione indipendente.

L’Isola delle Rose adottò come propria lingua ufficiale l’esperanto, proprio per sancire in maniera netta la propria sovranità e indipendenza dalla Repubblica Italiana e per ribadire anche il carattere internazionale della nuova Repubblica. Lo stemma era composto da tre rose rosse, con gambo verde fogliato, raccolte sul campo bianco di uno scudo sannitico.

L’Isola delle Rose si era data anche un governo, formato da una Presidenza del Consiglio dei Dipartimenti e da cinque diversi dipartimenti, suddivisi in divisioni e uffici.

L’Isola delle Rose venne occupata dalle forze di polizia italiane il 26 giugno 1968 e fu sottoposta a blocco navale.

Nel febbraio 1969 venne demolita.

Dove si trovava l’Isola delle Nel febbraio 1969 fu poi demolita Rose

La piattaforma dell’Isola delle Rose sorse 11,612 km al largo della costa italiana, in prossimità di Torre Pedrera, nel comune di Rimini, a 500 metri al di fuori delle acque territoriali italiane. L’Isola delle Rose confinava con acque internazionali, a eccezione del lato sud-ovest, dove avevano invece limite le acque territoriali italiane nel Mar Adriatico. La superficie dell’Isola delle Rose era di 400 metri quadrati, mentre quella delle sue “acque territoriali” era pari a 62,54 km².

Tratto dal Sito L'incredibile storia dell'Isola delle Rose, un sogno diventato realtà (virgilio.it)

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L'alluvione di Firenze del 4 novembre 1966
 
Pioveva dal giorno precedente. L'acqua scendeva abbondante sul nord Italia e i fiumi s'ingrossavano di ora in ora. La pioggia era accompagnata da un forte vento e, sui monti circostanti, il Casentino ed il MUgello, inizia a nevicare. I torrenti immissari dell'Arno sono ai limiti di capienza e le autorità locali segnalano lo stato di estrema gravità.
Quel pomeriggio, con mia moglie e mia madre ci stavamo dirigendo verso l'alta valle Brembana con l'intenzione di affittare un appartamento per trascorrere le vacanze invernali e, possibilmente, anche quelle dell'estate successiva.
Già a Lenna il Brembo era tumultuoso e la sua acqua color marrone  "muggiva" con un rumore sordo e inquietante. L'osservavo mentre, dopo Moio de Calvi, la potevo intravvedere dall'alto della strada e mi lasciava inquieto anche perché temevo potesse smottare il versante a monte, molto ripido e pieno di massi non ancorati con maglie metalliche.
Anche in valle la pioggia era insistente e copiosa e il cielo non prometteva nulla di buono. Continuare sarebbe stata una pazzia, cosi a Fondra decisi l'inversione di marcia per tornare in città.
 
La ricerca di un appartamento per le vacanze poteva attendere.

Alla radio trasmettevano notizie preoccupanti che riguardavano i corsi fluviali del nord del Paese e principalmente la zona di Firenze dove le stazioni pluviometriche registravano valori elevatissimi di caduta pioggia e il conseguentemente ingrossamento di torrenti e dello stesso Arno.

Un bollettino a posteriori citerà: " in quella notte, cadranno tra i 180 e i 200 litri su ."
Il livello dell'Arno iniziava a crescere con sempre maggiore rapidità. L'idrometro, prima di essere distrutto, segnalerà 8,69 metri. La temperatura sale di 5 gradi in modo inaspettato: questo sbalzo contribuirà allo scioglimento delle nevi sulle catene montuose, che porteranno a valle ancora più acqua. A monte, molti torrenti iniziavano a tracimare, mentre sull'Arno il livello era ancora entro i limiti di guardia, tale che non venne, a suo tempo, classificato in nessuna delle categorie a rischio idraulico (R.D. 25 luglio 1904, numero 523). Solo in alcuni tratti, per qualche affluente, vennero rafforzati gli argini.

Ma quel tardo pomeriggio del 4 novembre non era ancora accaduto l'irreparabile. La città si stava preparando a festeggiare la Festa delle Forze Armate.

Quasi come fosse un presagio, al teatro Verdi veniva proiettato il film La Bibbia di John Huston, erano I combattenti della notte, Che notte ragazzi! e Viaggio allucinante.

Alla televisione non vi era nulla di particolarmente interessante che invogliasse a fare tardi: sul primo canale veniva trasmessa prima una tribuna politica di un'ora di Luigi Longo, segretario nazionale del PCI ed a seguire il Festival della Canzone Italiana in Svizzera; il secondo canale offriva prima un breve sceneggiato con Clint Eastwood e poi il Rapporto del Ministro Tremelloni sulle nostre forze armate.
 
Ma a mezzanotte l'Arno iniziò la sua opera di devastazione tracimando nel Casentino e nel Valdarno Superiore. Nella zona di Incisa in Val d'Arno furono interrotte l'Autostrada del Sole e la ferrovia per Arezzo e Roma. Le acque dell'Arno invasero Montevarchi, Figline Valdarno, Incisa in Val d'Arno, Rignano sull'Arno, Pontassieve, Le Sieci, Compiobbi ed Ellera.

Era solo l'inizio della tragedia.
Alle 02.30: le fognature granducali esplosero una dopo l'altra: la pressione dell'Arno era troppo forte. Il fiume straripava alla Nave a Rovezzano, a Varlungo e a San Salvi. Nell'Oltrarno di Firenze, nel quartiere di Gavinana, iniziava la paura per i cinquantamila fiorentini che vi abitavano: la gente cercava di sgomberare gli scantinati e si rifugiava nei piani più alti. Nella zona di Santa Croce l'acqua iniziava a inondare via de' Benci.
Alle 03.00: alla nuova sede de La Nazione, in via Paolieri, si cercava di fare un quadro della situazione. Nessuno in redazione si aspettava un evento di dimensioni così catastrofiche. Franco Nencini chiamava per telefono Carlo Maggiorelli, addetto alla sorveglianza degli impianti idrici dell'Anconella, per avere qualche informazione. La situazione descritta da Maggiorelli era tragica; l'acqua lo travolse durante la telefonata.
Alle 06.50: a Firenze cedette la spalletta di Piazza Cavalleggeri: la furia dell'Arno si abbattè sulla Biblioteca Nazionale Centrale e sul quartiere di Santa Croce.

Firenze 4 novembre 1966 foto da NoGeoingegneria

 
Ponte Vecchio durante l'alluvione. (Raffaello BenciniAFPGetty Images) 
 
Alle 07.00: la tipografia de La Nazione viene allagata di 5 metri andando fuori uso. Solo nelle zone ancora intatte escirà con il titolo «L'Arno straripa a Firenze». Marcello Giannini, caporedattore della sede Rai fiorentina (allora in pieno centro storico, esattamente in piazza Santa Maria Maggiore), chiamava il direttore a Roma, ma la notizia non convinceva la sede centrale. Durante il suo giornale radio allora decise di calare il suo microfono fuori dalla finestra e far sentire in diretta la furia dell'Arno che scorreva tra le strade: «Ecco» disse Giannini «non so se da Roma sentite questo rumore. Bene: quello che state sentendo non è un fiume, ma è via Cerretani, è la via Panzani, è il centro storico di Firenze invaso dalle acque».
 


Firenze 4 novembre 1966 -3  Arezzo Meteo
Alle 20.00: mentre calava la sera, a Firenze, dove le acque avevano raggiunto anche i sei metri di altezza, l'Arno iniziò lentamente a lasciare il centro storico e rientrare nel suo corso. Fu l'inizio della fine dell'incubo per la città ma la furia del fiume in queste stesse ore arrivò ed Empoli, dove l'Elsa ruppe gli argini.
Firenze subì i danni più gravi dopo l'ultimo conflitto mondiale.
Sarà poi compito dei giovani volontari, gli "angeli di Firenze, dell'esercito e dei cittadini recuperare, pulire e riportare allo stesso splendore di prima le opere profanate dalle melmose e sporche acque dell'Arno, in quell'occasione, non più d'argento.
 
Firenze 4 novembre 1966 -4  Gli Angeli di Firenze it.wilkipedia.org
 
Gallicus

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Quaranta anni fa il terremoto in Friuli: quando l'Orcolat si risvegliò




Territorio distrutto, poi la rinascita che resta esempio di efficienza
 
Faceva caldo, molto caldo quella sera del 6 maggio 1976. Un caldo soffocante e quasi assurdo per la stagione. Poi, erano da poco passate le 21, la terra tremò e per il Friuli nulla fu più come prima. In pochi secondi un mondo, un modo di vivere, una cultura, un'intera comunità vennero spazzate via. Ma sul momento non si capì. Qualcuno pensava a un bombardamento, altri a scoppi di depositi di qualche polveriera della zona. Insomma non era chiaro.
D'improvviso le comunicazioni si interruppero, le linee erano sovraccariche, e a dialogare con i 'presenti sui posti' furono solo i radioamatori. ''Qui è tutto un polverone, si sentono grida in lontananza... non capiamo, forse c'è stato un terremoto''. Queste furono le primissime dichiarazioni degli autotrasportatori che passavano nelle zone di Venzone, Gemona, Osoppo. E la notte non aiutava.
Si era risvegliato l'Orcolat (l'orco, come da queste parti viene soprannominato il terremoto) e in pochi secondi si era trascinato tutto con sé.
In assenza di comunicazioni ufficiali ci si doveva basare sui telegiornali della sera. Tutti davanti ai televisori: ''c'è stato un terremoto in Friuli. Forse ci sono alcuni morti...". Solo alle prime luci del mattino dopo fu chiaro il quadro. Ovunque distruzione, ovunque case crollate, ovunque morte. Il terremoto aveva squassato il Friuli. E subito partì la solidarietà.
In quei giorni protagonisti furono in primo luogo i giovani friulani che a centinaia partirono per i luoghi colpiti dal sisma nel tentativo di salvare qualche vita umana. Si formarono delle squadre coordinate sul posto dai sindaci, dai Vigili del fuoco e dagli alpini della Julia che intanto si erano subito mobilitati per organizzare delle tendopoli per la notte e per quelle successive. Nei paesi più colpiti dalle scosse furono salvate vite umane, grazie al lavoro - a mani nude - di tantissimi 'angeli'.
Subito cominciò l'opera di smassamento di quello che restava delle case, dei fienili, delle stalle. Solo nel pomeriggio del 7 lo Stato arrivò con Giuseppe Zamberletti subito nominato commissario straordinario dal presidente del Consiglio Aldo Moro. E' storia nota. Sul campo rimasero quasi mille morti e un terzo della regione Friuli Venezia Giulia devastato. Alla classe politica si parava innanzi un compito immane: salvare quante più vite possibile nell'immediato, pensare all'emergenza e poi alla ricostruzione. Ma non era finita. Se la scossa del 6 maggio fu quella che mise in ginocchio il Friuli, il colpo di grazia doveva arrivare con le scosse di settembre che completarono la distruzione e obbligarono Stato e Regione a pensare di trasportare bambini, giovani e anziani lontano dall'epicentro. Subito si pensò alle località marine di Grado, Lignano, Bibione e Caorle dove ricostruire le comunità, mentre per gli 'attivi' si pensò di requisire migliaia di roulotte in giro per l'Italia, di concentrale nei paesi maggiormente colpiti per garantire almeno un minimo il lavoro nelle fabbriche che non erano state colpite dalla distruzione. Il motto di allora, che diventò un vero e proprio proclama politico-istituzionale, fu 'prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese': fu una scelta comune fatta propria anche dalla curia udinese. Si comprese che bisognava garantire il lavoro ai residenti, mettere in salvo i nuclei familiari e poi pensare alla ricostruzione che si voleva ''dov'era e com'era''.
Fu un'azione unitaria straordinaria. Maggioranza e opposizione deposero le armi e insieme collaborarono. Lo Stato delegò la Regione - con il coordinamento del Commissario straordinario - mentre questa, forte anche della sua autonomia, delegò ai comuni. I sindaci, per la prima volta nella storia d'Italia divennero protagonisti del futuro delle loro comunità. Non solo 'sindacalisti' o semplici supervisori, no. Decisori di come prestare i primi soccorsi, di come ricostruire e di dove ricostruire. Era, in nuce, la moderna Protezione civile. Tutto fu possibile grazie alla solidarietà nazionale e anche a quella internazionale essendo i friulani 'lontani dalla Piccola Patria' ben più numerosi dei residenti. Aiuti arrivarono subito dagli Stati Uniti, dall'Argentina, dall'Australia e da tantissimi Paesi europei. A quarant'anni da quei tragici giorni, a ricostruzione completata, si stima che il tutto sia costato circa 13 miliardi di euro. Una cifra non particolarmente alta se si pensa ad altre esperienze. Oggi tutto è a posto: i paesi sono stati tutti ricostruiti più belli di prima. Oggi l'Orcolat sicuramente non farebbe quella strage visti i sistemi antisismici di ricostruzione. Ma i paesi sono un po' vuoti... e le comunità non sono quelle di una volta... ammonisce la diocesi. Oggi tutto è cambiato e il Friuli non può essere estraneo alla globalizzazione. Rimane un'esperienza tragica, indelebile, che ha unito un popolo. E se oggi, pur nelle difficoltà della crisi, si può parlare di popolo friulano, lo si deve a quella straordinaria opera che è stata la ricostruzione del Friuli dopo il sisma di quaranta anni fa.
di Pier Paolo Gratton
http://www.ansa.it/friuliveneziagiulia/notizie/2016/05/03/quaranta-anni-fa-il-terremoto-in-friuli-quando-lorcolat-si-risveglio-_37d83f25-3591-4754-8834-2bcb0c830081.html

 
 
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4 maggio 1949: La strage su Superga 

 

Torino 4 maggio 1949 notte - nebbia, pioggia, vento, silenzio laddove 6 ore fa si è sfracellato l'aeroplano che riportava a Torino la più bella squadra di calcio d'Italia. Un pallido, rossastro riverbero illumina ancora palpitando le muraglie della Basilica di Superga. Un pneumatico dell'apparecchio sta ancora bruciando, ma la fiamma cede, tra poco sarà completamente buio. Lo spaventoso disastro è successo alle 17:05. Superga era avvolta in una fitta nebbia. A 30 metri non si vedeva niente. Nella sua stanza al primo piano della basilica il cappellano del tempio, prof. Don Tancredi Ricca stava leggendo. 
La pioggia, una impetuosa pioggia quasi da temporale scintillava scrosciano contro i vetri. Dal silenzio usciva poco a poco un rombo. Un aeroplano, pensò don Ricca. Ma ne passano tanti di aeroplani, un traguardo fra gli aviatori in arrivo. Prima di scendere al campo aeronautica d'Italia i piloti usano fare un picco sopra la Basilica, un ultimo giro.
Niente di strano, dunque ... Non è vero! Non è vero! Alcune ore sono passate prima che i torinesi, diciamo gli italiani, uscissero a conoscere nella sua selvaggia crudeltà questa sciagura.
Pare che pochi minuti prima della tragedia il marconista del campo di Torino in collegamento radio col collega a bordo dell'apparecchio ha scambiato con lui brevi messaggi. L'aereo - un 212 Fiat trimotore - gli avrebbe richiesto l'orientamento comunicando di trovarsi in mezzo a una formazione temporalesca a 2000 metri di quota. Poco dopo l'aeroplano si frantumava contro il pianterreno di Superga.
Possibile che in così breve tempo, tenendo conto della visibilità che avrebbe dovuto consigliare prudenza, l'aereo fosse disceso di quasi 1300 metri? E' sorto così il dubbio che l'altimetro si sia bloccato e che quindi il pilota, convinto di essere sempre a una quota notevole, non dubitasse minimamente del tremendo pericolo a cui andava incontro. C'è qualcuno che assicura di aver rintracciato il cruscotto e visto il quadrante dell'altimetro. Secondo questa testimonianza non ancora controllabile, la lancetta è ferma e punta a quota 2000. Se ciò fosse vero, sarebbe trovato il motivo principale del disastro.
Ore 17:03 ultimo messaggio:
"Ok. Arriviamo".
Ore 16:45, campo di volo dell'Aeronautica. La pioggia che ha provocato danni in tutto il Piemonte scende con raffiche violente, le nubi incombono basse, cupe. Nella cabina della stazione radio un silenzio angosciato: si aspettano messaggi da parte dell'aereo del Torino atteso per le 17:00. Finalmente un tichettio dell'apparecchio. Il tasto batte: "Siamo sopra Savona. Voliamo di sotto delle nubi, 2000 metri, fra 20 minuti saremo a Torino". La notizia giunge al bar vicino, dove tutti brindano. Il tasto riprende a battere: "__.__..__" VUole il rilevamento radiogonometrico. E' un'operazione semplice. Piton ci mette pochi secondi "QSM 280°".
Alle 17:02 la richiesta del bollettino metereologico: "Nebulosità intensa, raffiche di pioggia, visibilità scarsa, nubi 500 metri".
Ore 17:03. L'aereo trasmette: "Ricevuto, sta bene, grazie mille".
E' l'ultimo messaggio.
 
Tratto da http://www.ilgrandetorino.net/strage.htm
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8 aprile 1915 - Le trattative tra Italia e Austria sembrano avviate su un binario morto
 
 
Si poteva evitare ?
 
Ultima offerta: cessione all’Italia del Trentino, con Bolzano e la Val d'Isarco fino a Chiusa, di varie isole lungo la costa dalmata, più uno spostamento del confine orientale italiano che includa Gorizia, la creazione di uno Stato autonomo di Trieste e la rinuncia austriaca a ogni pretesa sull'Albania.
E’ sempre tanta roba. In cambio l’Ambasciatore italiano a Vienna offre la solita neutralità e 200 milioni di lire in oro.

Il Ministro degli esteri Sonnino considera queste le “condizioni minime e indispensabili”.
L’8 aprile le trattative sembrano avviate su un binario morto, ma si prova comunque a proseguirle. I rapporti tra l’Italia e l’Impero asburgico non sono stati sempre all’insegna della cordialità, ma ora stiamo toccando i minimi storici. Per qualche austriaco la nostra offerta potrebbe puzzare di ultimatum.



A Roma si assiste all’ennesima grande manifestazione interventista. E’ un omaggio al Generale francese Pau, giunto a Roma al termine della sua missione in Russia; l’alto ufficiale soggiornerà nella capitale, per poi riprendere la via di Parigi e tornare a combattere i tedeschi.

Già, i tedeschi. Quelli stanno preparando qualcosa e un giornale belga, “La Nouvelle” di Maastricht, afferma di avere un indizio: le armate del Kaiser avrebbero acquistato tutti i cani di Hasselt e starebbero sperimentando gli effetti delle nuove granate a gas.


Davide Sartori

Politica e società
  • Nota italiana all’Austria dove si richiedono concessioni territoriali in cambio della neutralità.
  • Comincia la deportazione e il massacro armeno nell’impero ottomano
  • Tentativo d’assassinio di Hussein Kamel, Sultano d’Egitto. Un egiziano spara un colpo di rivoltella senza ferirlo.
  • Il ministro degli esteri Sonnino, per mezzo dell’ ambasciatore a Vienna, espone al governo austro-ungarico il minimo delle concessioni politiche e territoriali che l’Italia chiede e ritiene indispensabili per poter creare una situazione normale e stabile di reciproca cordialità e di possibile cooperazione futura. Sarà assicurata in cambio la neutralità italiana nella guerra in corso. 
  • Grande dimostrazione interventista a Roma per l'arrivo del generale francese Pau, che torna in Francia da una missione presso il governo russo.
  • Secondo un comunicato ufficiale del governo tedesco i cannoni catturati sinora al nemico ammontano a 5510: cioè 3300 presi ai Belgi, 1300 ai Francesi, 850 ai Russi, 60 agli Inglesi.
  • Venizelos minaccia di ritirarsi dalla vita pubblica per l'opposizione della Corona, che neppure ha voluto dargli soddisfazione per una smentita inflittagli dal Governo, e per le polemiche sulla questione dell'intervento

Fronte occidentale
  • Viene respinto l’attacco francese nel distretto di Woevre

Fronte orientale
  • Scontri dal risultato incerto nei Carpazi

Operazioni navali
  • L’incrociatore tedesco “Prinz Eitel Friedrich” viene imprigionato a Newport News, Virginia. 

Tratto da http://accaddeoggi.centenario1914-1918.it/it/accaddeoggi/19150408

 

 

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Prefazione

Nei miei ottant'anni di vita ho letto, ascoltato e, qualche volte ricordato "storie" accadute a persone e luoghi  e che, ri...