Vincenzo
Verzeni
Vincenzo Verzeni, “il vampiro di Bergamo”, si può considerare il primo
serial killer di cui si ha notizia precisa e dettagliata in Italia. Comincia a
colpire già all’età di 18 anni e a soli 22 anni sarà catturato e assicurato
alla giustizia.
Nato nel 1849 a Bottanuco, nel bergamasco, era un ragazzo di robusta
costituzione, docile, silenzioso e solitario, appariva gentile e innocuo. Proveniva
da un ambiente familiare disagiato e povero: un papà violento e quasi sempre
ubriaco, una madre remissiva e bigotta.
Un contesto difficile che non permette a Vincenzo di coltivare relazioni
interpersonali con i suoi coetanei, e soprattutto con le ragazze. La sua
rabbia, trattenuta e alimentata per anni esplode, tra il 1870 e il 1874.
La sua prima vittima fu Giovanna Motta di 14 anni. La giovane si stava
recando a Suiso da alcuni parenti, quando fu aggredita da Vincenzo. La
ragazzina non giunse mai a destinazione e scomparendo misteriosamente
inghiottita nel nulla. Il suo corpo fu rinvenuto quattro giorni dopo deturpato
da orrende mutilazioni. Il cadavere era completamente nudo e senza viscere,
aveva molta terra in bocca ed era privo degli organi sessuali. Il collo
presentava molti morsi e su un masso, accanto furono rinvenuti ben 10 spilloni
disposti a raggiera.
La seconda vittima, nel 1872, si chiamava Elisabetta Pagnoncelli. Il suo
cadavere fu ritrovato scannato, con morsi e graffi ovunque. Un rituale
vampirico molto simile a quello usato per uccidere la Motta. Tra questi due
omicidi portati a compimento, il Verzeni cerca, senza riuscirci, di uccidere
altre donne per dissetarsi del loro sangue.
Nel 1867 afferra alla gola la cugina Marianna durante il sonno, ma la
giovane grida e lui è costretto a fuggire. Nel 1869 Barbara Bravi è avvicinata
da un individuo che l’aggredisce, urla disperata e l’assalitore fugge. Pur non
riuscendo a vedere bene l’uomo, la donna non esclude che possa trattarsi del Verzeni.
Nel 1869 Margherita Esposito è assalita da una persona che lei identifica
come Verzeni. La donna riesce a colpire l’aggressore al volto e, casualmente,
il Verzeni nello stesso giorno sarà visto con la faccia gonfia. Sempre nel
1869, Angela Previtali è aggredita e trascinata in una strada isolata ma alla
fine Verzeni la libera mosso da compassione. Il 10 aprile del 1871 tocca a
Maria Galli importunata da un individuo che lei riconosce come Verzeni.
Il 26 agosto 1871 la signora Maria Previtali è spinta, gettata a terra e
presa alla gola. Invitata a indicare il suo aggressore, Maria riconosce Verzeni
come colpevole.
Il giovane eviterà comunque la condanna a morte per fucilazione, grazie al
voto favorevole di un giurato e sarà condannato ai lavori forzati. Durante il
processo l’imputato dichiarerà: “Io ho veramente ucciso quelle donne e ho
tentato di strangolare altre perché provavo in quel modo un immenso piacere. Le
graffiature che si trovarono sulle cosce non erano prodotte con le unghie ma
con i denti perché io, dopo averle strozzate, le morsi e ne succhiai il sangue
che era colato, con la quale godei moltissimo”.
Vincenzo Verzeni non reggerà a lungo i lavori forzati e, il 13 aprile 1874,
sarà trasferito in un manicomio giudiziario, dove riceverà “cure estreme” come
il totale isolamento nell’oscurità, docce gelate fatte cadere sul capo da
un’altezza di 3 metri, alternate a bagni di acqua bollente o scariche
elettriche di varia entità. “Cure” che lo faranno chiudere in un mutismo
impenetrabile sino al 23 luglio 1874, quando sarà ritrovato impiccato nella sua
cella. Fu rinvenuto penzolante contro il muro, con indosso solo le ciabatte e
le calze, appeso per il collo a una fune attaccata all’inferriata.
Così finì la sua esistenza Vincenzo Verzeni, riconosciuto come un vampiro
sadico e spietato che uccideva spinto da motivazioni sessuali. Il suo caso fu
trattato da Cesare Lombroso (padre dell’antropologia criminale) nel suo libro
“L’uomo delinquente”. Lombroso, prese parte al processo Verzeni, durante il quale
sarà attratto da alcuni tratti somatici dell’imputato, come le mandibole enormi
e gli zigomi alti, e fonderà su di lui le sue teorie del delinquente nato. Alla
fine del processo, definirà l’imputato affetto da cretinismo, da necrofilia o
pazzia per amori mostruosi o sanguinari, e malato di pellagra.
A cura di Lara Pavanetto.
Tratto da https://veneziacriminale.wordpress.com/2014/10/09/vincenzo-verzeni-il-vampiro-di-bergamo-1870/
Schegge dal passato: i rifugi
antiaerei di Dalmine
Ogni città è palcoscenico
del proprio vissuto storico e ogni traccia del passato nasconde una storia da
raccontare. A volte questa storia è narrata e custodita nei musei, altre volte
ci viene raccontata dai monumenti, dalle vie cittadine e dai dettagli che
l’abitudine ha smesso di farci notare. Le tracce del passato portano alla luce
anche brutti ricordi, tragedie che ancora oggi ci fanno riflettere. I ricoveri
antiaerei di Dalmine risalenti alla Seconda Guerra Mondiale ne sono un esempio.
Sì, perché nonostante siano trascorsi settantatré anni dalla loro costruzione e
siano dismessi ormai da parecchio tempo, sono ancora lì, nei quartieri Leonardo
da Vinci e Mario Garbagni, a testimoniare silenziosamente l’occupazione tedesca
e la tragica devastazione del 6 luglio 1944.
Le acciaierie e la
guerra. I due rifugi vennero costruiti nel corso del primo
semestre dell’anno 1943, nei pressi del complesso delle acciaierie di Dalmine,
conosciute allora come Officine Mannesmann. In quegli anni, l’Italia
centro-settentrionale era occupata dalle forze tedesche e le acciaierie di
Dalmine si erano impegnate, con l’accordo del 6 ottobre 1943, a garantire la
produzione bellica per il Reich e per l’Italia in cambio di protezione militare
per tutta la durata della guerra. Erano anni difficili, densi di
preoccupazioni e di minacce belliche.
La costruzione dei due
rifugi antiaerei. A Dalmine, dove il complesso edilizio della città
si sviluppava per lo più nei pressi dell’impianto siderurgico, la necessità di
difendersi dalle possibili incursioni aeree si concretizzò con la realizzazione
di due ricoveri antiaerei: uno destinato al quartiere operaio Mario Garbagni,
con capienza di cinquecento persone e l’altro, destinato agli impiegati e ai
dirigenti d’azienda, nel quartiere Leonardo Da Vinci, che poteva ospitare
almeno trecentosessanta persone.
Si legge sul blog di Gianni Facoetti: «Per la costruzione sono
stati preventivati l’impiego di 10mila quintali di cemento, 350mila mattoni,
60mila mattoni forati e 150 tonnellate di ferro. Inizialmente la costruzione di
entrambe le opere venne affidata a una ditta di Milano, la Damioli che in data
9 febbraio cominciò le operazioni nel quartiere Garbagni, e subito dopo in
quello del Da Vinci. Nel frattempo alla Dalmine pervennero nuove offerte
più convenienti da parte di ditte concorrenti di Bergamo, che riuscirono a
strappare l’appalto delle costruzioni alla rivale milanese. Alla Damioli
subentrava, rispettivamente, l’Impresa Lanfranconi per il cantiere al quartiere
Garbagni, e l’impresa Receputi per il cantiere del Da Vinci. Il preventivo di spesa
veniva definitivamente approvato con la bella cifra di 2.050.000 lire per il
Garbagni e 1.950.000 lire per il Da Vinci
L’esecuzione dei due
imponenti rifugi prevedeva un impegno notevole sia sotto il profilo economico
che sul piano delle risorse materiali e umane necessarie alla loro
realizzazione. Per cercare di risolvere il problema si decise di ricorrere,
come forza lavoro, all’impiego dei prigionieri di guerra del vicino campo di
Grumello che accoglieva al suo interno militari ed internati di diverse
nazionalità, in buona parte inglesi, francesi, greci e slavi. (il campo P.G. N.
62 di Grumello al Piano venne aperto nell’estate del 1941 in una località a
pochi chilometri da Bergamo per internare prigionieri di guerra di grado
inferiore, sottufficiali e truppa. Nel dicembre del 1942 aveva una capienza
dichiarata di 3.000 posti-vedi DPG28). La mattina venivano trasportati a
Dalmine utilizzando la linea ferroviaria Bergamo-Monza. Alla fine di
giugno del 1943, la costruzione dell’opera viva risultava terminata».
Struttura e funzionamento
dei bunker. I rifugi venivano raggiunti attraverso due profondi
pozzi muniti di scala a chiocciola, che portavano a una profondità di circa
venti metri, quota alla quale erano posizionale le gallerie destinate ad
accogliere gli sfollati. I due corridoi misuravano uno sessanta e l’altro
quarantacinque metri e lungo le pareti si sviluppavano dei sostegni in muratura
destinati a portare panche di legno dove i presenti avrebbero trovato
posto a sedere. Le gallerie erano ricoperte da uno strato di terreno, allo
scopo di rallentare la penetrazione delle bombe, evitando quindi che
l’esplosione avvenisse a contatto diretto con la loro superficie. Lo spazio era
organizzato e predisposto con accortezza: ogni ricovero disponeva di un locale
destinato al pronto soccorso, di un comparto di ventilazione e di trattamento
chimico dell’aria, di un locale riservato ai responsabili del rifugio e infine
di due bagni. Per garantire il contatto con l’esterno, era
presente un collegamento telefonico con il centralino della Direzione
dello stabilimento, le cui operatrici erano preposte a ricevere le
comunicazioni provenienti dalla centrale di allarme di Milano.
Al suono della sirena di
allarme, chiunque si fosse trovato in casa avrebbe dovuto scendere nel rifugio
più vicino secondo un protocollo ben preciso: bisognava mantenere la calma,
munirsi di abiti caldi, di acqua, di viveri e di maschera antigas. Nei ricoveri
non si poteva fumare e non erano ammessi animali. Chi, invece, si fosse trovato
all’aperto, era invitato a sparire dalla circolazione cercando rifugio nei
bunker, sotto i porticati, negli scantinati o ai piani terreni.
Il bombardamento del
1944. Il 6 luglio 1944, le strategie di sicurezza dei bunker
servirono però a ben poco, perché due gruppi di bombardieri americani
provenienti dal Sud Italia scaricarono settantasette tonnellate di bombe sopra
la fabbrica senza che nessun segnale d’allarme fosse diramato. I bunker
rimasero vuoti e il bombardamento costò la vita a duecentosettantotto (268)
persone e più di ottocento feriti. Secondo l’inchiesta dell’indagine della
commissione prefettizia del 1945, l’allarme fu lanciato dalla centrale tedesca
di Milano con deplorevole ritardo. Dopo il 6 luglio 1944, almeno altri sei
bombardamenti interessarono il comune di Dalmine, ma questa volta i ricoveri
contribuirono alla salvezza di molte vite umane.
Tratto
da http://www.bergamopost.it/vivabergamo/schegge-dal-passato-rifugi-antiaerei-di-dalmine/
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Il mattino del 3 marzo 1906,
Tavernola iniziò a
sprofondare nel Sebino.
Fortunatamente si registrò una sola vittima:
Pietro Zenti
Il 3 e il 4 marzo del 1906 la lentezza dei
crolli consentì ai tavernolesi di rendersi conto della gravità della situazione
e quindi di abbandonare in tempo le abitazioni per mettersi in salvo nella
parte alta, nelle frazioni a monte e nella chiesa di San Pietro adiacente il
cimitero. Ma ugualmente ci fu una vittima: in una casetta in riva al lago padre
e figlio non seguirono i congiunti sfollati. Avevano, infatti, deciso di
restare nella loro abitazione che durante la notte crollò nel lago,
trascinandoli con sé: Pietro Zenti di 68 anni fu l'unica vittima del disastro
di Tavernola, mentre suo figlio Battista si salvò, aggrappandosi ad alcune
travi e aspettando il professor Sina e alcuni barcaioli che accorsero
coraggiosamente in suo aiuto.
Intanto i rifugiati dell'ultima ora, che si erano assembrati in San Pietro, tendevano l'orecchio per individuare la provenienza degli scrosci delle case che scivolavano nell'acqua. All'alba la scena che si presentò ai loro occhi fu sconvolgente: villa Grasselli, la strada, gran parte della casa parrocchiale, parte dell'orfanotrofio del Cacciamatta, la casa delle sorelle Foresti, l'osteria, la filanda Capuani e casa Zenti se l'era tutte inghiottite il Sebino.
Sono tutti morti i tavernolesi testimoni diretti dell'avvallamento. Ma c'è chi ricorda per aver sentito narrare questi fatti fin dall'infanzia. Come Emma Foresti, 85 anni, che ricorda bene i ripetuti racconti di sua madre. «A lanciare il primo allarme sabato 3 marzo furono alcune lavandaie, tra cui mia madre Ninì (Caterina Trapletti, ndr) che all'epoca dei fatti aveva 17 anni e lavorava nella filanda Capuani. Alle 7 di mattino, prima di recarsi al lavoro, stava sciacquando i panni nel lago, quando notò che dall'acqua provenivano delle strane bolle. Si ritirò appena in tempo per vedere scomparire lo scivolo in pietra su cui alcuni minuti prime si trovavano lei e le sue amiche. Il barcaiolo Tonni di Portirone, passando la sera precedente davanti a Tavernola di ritorno da Iseo aveva udito un rumoroso e strano ribollire in profondità del lago, cosa che aveva segnalato con meraviglia ai conoscenti.
Nonostante i crolli e gli allarmi lanciati da
varie persone, le filandiere dovettero trattenersi in filanda per tutta la
giornata, dato che il proprietario la riteneva al sicuro. Solo di sera, però,
in seguito al crollo di un'altra parte della villa Grasselli, cominciò l'esodo
affrettato della gente. Si stava facendo buio, quando Pierì Foresti, udito un
altro crollo, cominciò a correre per i vicoli urlando alla gente di scappare».
«Le orfanelle del Cacciamatta – continua Emma Foresti – fuggirono a precipizio dalla porta posteriore su per la via Valle per trascorrere la prima notte nella chiesa di San Michele. Mia mamma con la sua famiglia scappò al cimitero, luogo di rifugio per quelli delle retrostanti via Pero e via Roma. Non era una notte di luna, pertanto non si poteva vedere nulla d'alto. Si sentivano però i boati e gli scrosci dei crolli. Agli abitanti delle case pericolanti fu consentito un rapido rientro per mettere in salvo quanto possibile. Ci fu una gara di solidarietà fra compaesani che ospitarono i senzatetto per tutto il periodo della ricostruzione».
di Margary Frassi
L'ECO
DI BERGAMO - 3 marzo 2006
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La Pro
Dalmine
Le
opere sociali e assistenziali della Dalmine S.A. fino al 1942 ca.
La
Società Anonima Stabilimenti di Dalmine è la fondatrice della Società Anonima
la “Pro Dalmine” (costituita il 09.07.1935 con sede a Milano e poi fusa in
Dalmine nel 1973) la quale ha per iscopo
precipuo il coordinamento e l’incremento
di tutte le opere assistenziali per la maestranza operaia ed impiegatizia nella
zona di Dalmine e l’incremento di opere sociali, culturali ed assistenziali a
loro favore e delle loro famiglie, nonché lo sviluppo di ogni iniziativa a
favore della plaga dalminese, in ispecie immobiliare ed agricola, con
esclusione di ogni finalità di lucro. Un cenno particolare meritano le quatto
colonie estive per ragazzi dai 6 ai 12 anni che ogni anno ospitavano, a spese
della Pro Dalmine, i ragazzi dei dipendenti della Dalmine. Per quei tempi fu
un’iniziativa sociale molto apprezzata e sentita. Il periodo qui rappresentato è anteriore al
1942. Dopo il periodo bellico è tutta un’altra storia.
Opere
realizzate a Dalmine dalla Pro Dalmine (progett. arch. Giovanni Greppi - (MI
1884 - MI 1960)
Albergo- pensione privata (1925)
Scuola
privata elementare (1926-28)
L’asilo-scuola
materna (1926-28)
Il
villaggio operai–M.Garbagni (1928)
Il
villaggio impiegati-L.daVinci (1928)
I
campi polisportivi con pista (1929)
La
chiesa di S. Giuseppe (1929-31)
Le
case Parrocchiali (1929-31)
La
colonia alpina di Castione (1931-33)
La
mensa aziendale (1934)
La
cooperativa di consumo (1934)
Lo
spaccio alimentare (1934)
Il
pastificio e panificio /1934)
Il
molino (1934)
La
centrale del latte (1934)
La
colonia di Riccione (1936)
La
colonia di Dalmine (1937)
L'azienda
agricola (1937)
La
piscina scoperta (1937)
L'antenna
alta 63 m (1937-38)
Il
poliambulatorio (1941-1942)
La
casa del fascio (1938)
La
sede del dopolavoro (1938)
La
fontana monumentale (1938-39)
Sede
direz.le Dalmine S.A. (1938)
La
casa di riposo (1939-1940)
Colonia
Crenoterapica Trescore 1941
Autorimessa
per autobus (1954)
Quartiere
del Cinquantenario (1955)
La
colonia Alpina di Castione della Presolana (1.000 m s.m.)
La
decisione di costruire un apposito edificio come colonia alpina a Castione
della Presolana maturò nel 1930 avendo come obiettivo la salute dei bambini e
quando la Società ritenne ormai insufficiente ospitare i figli dei dipendenti
presso altri istituti già esistenti. Viene pertanto acquistato a Castione un
terreno coperto quasi completamente da una pineta e sul quale sono presenti due
fabbricati. L’incarico di progettare la nuova colonia è affidato all’arch.
Giovanni Greppi la cui creatività è però ostacolata dal problema del
contenimento dei prezzi.
La
colonia marina di Riccione (Forlì)
L’edificio
della colonia, progettato dall’arch. Greppi, fu costruito su un appezzamento di
terreno ubicato sulla litoranea Riccione-Rimini, largo 130 m e lungo 280 m che
si estende dalla spiaggia al terrapieno della ferrovia adriatica. I terreni, di
proprietà della sig.ra Nadiani Teresa ved. Bianchini, rappresentata dal figlio
Bianchini Massoni Guido, sono stati acquistati dalla Società Anonima Pro
Dalmine, rappresentata dal Consigliere Delegato Cav. Dott. Prearo, con atto
notarile N. 13999 di Rep. Del 1 agosto 1935, in conformità alla relazione
catastale di misurazione del geom Pozzi Rodesindo datata 16 luglio 1935, che si
allega, per la somma di £ 80.000.
La
colonia elioterapica di Dalmine (BG)
Costruita
nel centro di Dalmine, vicino alla grande fabbrica, offriva 60 giorni di cura
ai bambini dai 6 ai 12 anni, anche non appartenenti a famiglie di dipendenti
della Dalmine. La sua attività inizia nel 1924 con 77 bambini, nel 1938 erano
251 poi via via crescendo fino a un massimo di 344 bambini nel 1940. Tra la
fine degli anni 1910 e l'inizio degli anni 1920, come altri comitati italiani,
anche il Comitato Provinciale Antitubercolare di Bergamo promosse un’intensa
propaganda a favore delle colonie per bagni di sole nel tentativo di sostenere
un'adeguata profilassi per l'infanzia. La Colonia elioterapica di Dalmine fu
istituita nel 1922 dalla Soc. An. Stabilimenti di Dalmine, intitolata dal 1924
a Cesare Molinero, direttore amministrativo della Società.
La
colonia Crenoterapica di Trescore Balneario (BG)
Nella seconda metà degli anni Trenta la società
Anonima Stabilimenti di Dalmine decise di istituire una Colonia crenoterapica
per i figli dei propri dipendenti, ai quali offrire le cure delle acque termali
di Trescore Balneario. La colonia crenoterapica di Trescore Balneare (BG)
poteva ospitare 100 bambini per ogni turno di venti giorni, per la cura di
affezioni otorinolaringoiatriche, cutanee, artritiche, asmatiche etc.
interamente a spese della Pro Dalmine. Fino al 1941 i bambini venivano
alloggiati presso il locale stabilimento Bagni. Nel 1938 e 1939 venne fatto un
solo turno, (rispettivamente di 11 e 49 bambini) nel 1940 e 1941 tre turni
(tot. 300 e 137 bambini). Dal 1942 la colonia disponeva di sede propria in un
edificio appositamente attrezzato: avente superficie cintata di 7.000 mq e un
volume del fabbricato di 8.400 mc. Nel 1957 sui 150 addetti alle colonie della
Dalmine 19 erano destinati alla colonia di Trescore.
La
colonia Dalmine è diventata, nel 2005,
la Casa di riposo «Papa Giovanni XXIII»
cioè Residenza Sanitaria Assistenziale per anziani. La struttura, dopo
quattro anni di lavoro e una radicale trasformazione, dispone di 61 posti letto
con tutti i servizi complementari.
Il
centro di Dalmine
Sulla
piazza XX Marzo 1919, di fronte all’ingresso agli stabilimenti, la fontana su
cui sono incise le parole del discorso di Mussolini agli operai della Dalmine
del 1919. Da un lato la Chiesa Parrocchiale, le Scuole Elementari, l’Asilo
Infantile e la Colonia elioterapica, dall’altro lato la Cooperativa di consumo,
la Mensa aziendale ed il Molino. Un viale intitolato al martire fascista Giulio
Benedetti porta alla piazza dell’Impero, dominata dalla più alta antenna
tubolare del mondo (63 m). Intorno all’antenna la casa del Fascio, la casa
Comunale, il Poliambulatorio e la sede del Dopolavoro.
La
Chiesa Parrocchiale
Costruita
su progetto dell’arch. Greppi e inaugurata nel 1931, venne decorata ed
affrescata da artisti insigni. Donata dalla Dalmine alla parrocchia S. Giuseppe
di Dalmine.
La
Chiesetta di S. Giorgio
Antica
cappella di origine anteriore al 1500, testimone di molta parte della storia
dalminese, è ornata di antichi e pregevoli affreschi murali. In corso di tempo
divenne di proprietà dei canonici lateranensi, poi della famiglia Camozzi e poi
della Pro Dalmine, che nel 1940 provvide al suo accurato restauro. Ora è di
proprietà della parrocchia.
La casa del fascio
Sulla
Piazza dell'Impero di Dalmine (ora piazza della libertà), si affacciavano gli
edifici di rappresentanza del Comune di Dalmine, edificati tra il 1934 e il
1938. Tra di essi la Casa del Fascio, costruita tra il 1934-35 e donata dalla
Soc. An. Stabilimenti di Dalmine, il 28 ottobre 1936 (XIV), al Fascio di
combattimento di Dalmine e fu la sede di tutte le organizzazioni della
federazione del fascio locale. La torre rivestita di pietra della Rocca delle Caminate,
racchiude nel suo interno il Sacrario in ricordo dei camerati caduti.
Le piscine
L’asilo
Infantile
Costruito
nel 1926 su progetto dell’arch. Greppi.
Ospitava ogni anno 60 figli dei dipendenti, ai quali, attraverso la Pro
Dalmine, venivano distribuiti gratuitamente indumenti e refezione. Sup. 332 mq,
Volume 1.916 mc.
Le
scuole elementari
L'edificio
della scuola elementare era stato realizzato nel 1927 da Giovanni Greppi, ha
una cubatura di 5.680 mc ed circondato da un ampio giardino. Destinata in primo luogo ai figli dei
dipendenti della Società, che attraverso la Pro Dalmine provvedeva ad ogni
spesa educando ogni anno, nelle cinque classi, circa 250 alunni. La decisione
della Società di costruire in proprio una scuola elementare matura a seguito di
anni di complessi rapporti con l'allora comune di Sabbio che, a seguito di
convenzioni e oblazioni da parte dell'impresa siderurgica, avrebbe dovuto
occuparsi della realizzazione delle scuole, operazione sempre rimandata. La
situazione venne sbloccata quando, nel 1927, Sforzatica, Mariano al Brembo e
Sabbio Bergamasco vennero riuniti amministrativamente nell'unico comune di
Dalmine. Poi passata alla Provincia ora è di nuovo passata a privati,
ristrutturata e ampliata (20
Villaggio
Operai e Villaggio Impiegati.
I due
villaggi in continuo sviluppo, occupavano, compreso le case costruite nell’anno
XX, un’area di 135.937 mq, di cui 21.257 mq sono coperti da 88 fabbricati (296
appartamenti pari a 1.460 locali), con un volume complessivo di 162.935 mc,
mentre la parte rimanente era destinata a giardini ed orti attorno ad ogni
casa.
La
pensione Privata
L’Albergo
o Pensione Privata, nata nel 1925, per il personale delle acciaierie privo di
famiglia e che provenivano da località lontane, apre la lunga e programmata
sequenza di realizzazione che cambieranno il volto di Dalmine. In stile Art
Decò l’albergo è un edificio ben proporzionato che Greppi progetta sino nei
sino nei minimi dettagli: suoi sono gli arredi, come i lampadari e l’apparato
decorativo, i parapetti in ferro dei balconi e quello della grande scalinata
interna. La foresteria metteva a disposizione fino a 40 camere da letto, sale
da gioco e da ritrovo. Il ristorante poteva servire 120 pasti
contemporaneamente, anche per ospiti giornalieri presso gli uffici della
Dalmine.Superficie
coperta del fabbricato 933 mq, per un volume di 11.000 mc.
Mensa
Aziendale
Poteva
accogliere contemporaneamente 1.200 operai per ogni turno, per ricevere il
pasto o consumare cibi portati da casa. Superficie del fabbicato 936 mq per un
volume di 11.250 mc.
Deposito
cicli
Il
deposito poteva accogliere 3600 bici, opportunamente marcate e con contrassegno
che la guardia di sorveglianza poteva controllare.
La
Cooperativa di consumo
Consentiva
ai dipendenti della Dalmine l’acquisto di ogni genere alimentare col doppio
vantaggio del prezzo limitato e del pagamento mediante gettoni anticipati sulla
busta paga. La cifra media di affari, di L 2.500.000 per anno, dice quanto
favore incontrava questa istituzione che ripartiva gli utili fra gli stessi
consumatori, in rapporto agli acquisti compiuti.
Il
Molino, il Pastificio e Panificio, la Centrale del Latte.
Sono
nati per lavorare i prodotti primari dell’Azienda Agricola della Pro Dalmine che
venivano poi passati alla Cooperativa di Consumo per la distribuzione. Il
fabbricato molino-pastificio-panificio occupava una superficie di 485 mq. Le
potenzialità produttive erano: 25 q.li di farina, 10 q.li di pane e 5 q.li di
pasta. La centrale del latte lavorava circa 70.000 litri di latte all’anno.
L’azienda
agricola
Era
destinata a ricordare ai lavoratori l’amore per la terra, prima base
dell’economia nazionale, ed a servire da guida all’agricoltura locale con
coltivazioni e attrezzature razionali. L’azienda agricola era composta da 8
gruppi colonici, con 100 ettari di terreno interamente a coltivazione e con 70
capi di bestiame da latte. Dotata delle principali macchine agricole, con due
trattori meccanici disponeva anche di un moderno impianto di essicazione del
granoturco. Da segnalare che nel 1941 la
Pro Dalmine ebbe il primo premio del Concorso Provinciale per alte produzioni
unitarie di bozzoli fra Aziende agricole condotte a mezzadria.
Il
Dopolavoro Aziendale.
Nasce
nel 1938 per l’organizzazione del tempo libero dei dipendenti della Dalmine. Il
fabbricato ha una superficie coperta di 420 mq per un volume complessivo di
4.365 mc.Il dopolavoro Aziendale è dotato di uno stadio avente un’area di
22.000 mq, con una pista sopraelevata in cemento per gare ciclistiche, di campi
di gioco per palla-corda che coprono un’area di 1.435 mq, di una piscina di
dimensioni olimpiche (33,33 x 18 m), e di due campi da tennis, ideale centro di
sport e svago per le maestranze della Dalmine. La sede del Dopolavoro Aziendale
della Soc. An. Stabilimenti di Dalmine, costituiva insieme alla Casa Comunale e
alla Casa del Fascio, la serie di edifici realizzati per il centro di Dalmine
dall'architetto Giovanni Greppi tra il 1936 e il 1938. Nei suoi due piani
ospitava locali di riunione per i dipendenti, allo scopo di favorire lo
sviluppo di attività ricreative nel tempo libero. Il dopolavoro, intitolato
alla medaglia d'oro Antonio Locatelli, nel dopoguerra divenne Circolo
Ricreativo Aziendale Lavoratori (Cral). Organizzava diverse attività culturali
(tra le più importanti il Premio Dalmine di fotografia in varie edizioni dal
1939 al 1964 e il Premio Dalmine di pittura.
La
casa di riposo 20 Marzo 1919
Costruita
nel ventennale del discorso di Mussolini a Dalmine, era destinata ad
accogliere, a complete spese della Società, i vecchi operai della Dalmine. Nel
periodo bellico il fabbricato è stato momentaneamente (poi permanentemente)
utilizzato per la Scuola Tecnica Industriale e per le altre istituzioni
coordinate dal Centro per l’istruzione Professionale della Dalmine.
Poliambulatorio
Dalmine
Premesso
che la Pro Dalmine S.A. ha per scopo, fra l’altro, la fondazione e l’incremento
di opere Sociali e assistenziali a favore dei dipendenti della Dalmine S.A. e
delle loro famiglie; per il raggiungimento del citato scopo fa atto di
donazione del poliambulatorio, per l’assistenza sanitaria di circa 25.000
persone, ai dipendenti della Dalmine e alle loro famiglie. L’immobile, di nuova
costruzione, realizzato nel 1942 dalla “Pro Dalmine S.A.” su progetto
dell’arch. Giovanni Greppi è ubicato sul viale principale di Dalmine (Viale
Giulio Benedetti – ora Viale Betelli), accanto alla Casa del Fascio e di fronte
al Municipio.
L’acquedotto.
Il 20
dic. 1941 la Pro Dalmine acquista l’acquedotto di Dalmine dal Comune di Bergamo
(acquedotti civici). La pro Dalmine si sostituisce pertanto al Comune di
Bergamo nell’esercizio dell’acquedotto. A sua volta il Comune di Dalmine cede a
Pro Dalmine la sua parte di proprietà dell’acquedotto. Bergamo (acquedotti
civici) s’impegna a mantenere in efficienza i due tronchi di collegamento,
quello proveniente da Treviolo e quello sulla strada provinciale BG-MI, che
resteranno collegati all’acquedotto di Dalmine tramite saracinesca. Costo
totale L 150.000.
Prima
del ’41 il servizio veniva svolto dal Comune di Dalmine con acqua proveniente
dagli Acquedotti Civici del comune di Bergamo, con il tempo e gli accresciuti
fabbisogni si dimostrava insufficiente. Negli anni 37-38, la Pro Dalmine aveva
costruito una propria rete di distribuzione nel comune di Dalmine la cui
capacità era stata studiata per servire l’intero territorio comunale. A questo
punto il Comune, fra più soluzioni, scelse quella di stipulare una convenzione
con la Pro Dalmine e cedere a Pro Dalmine tutti i propri impianti
dell’acquedotto per L 50.000. Mai scelta fu più infelice. Infatti la sola
bolletta del comune, per l’acqua acquistata da Pro Dalmine per il 1942, ammontò
a L 55.000. Dopo gli anni 60 il Comune
si rese conto della necessità di riacquistare l’intero acquedotto. Il primo
tentativo, senza esito, risale al 1959 con una stima di L 45.000.000. Negli
anni 60/64 il Comune affrontò il problema alla radice cercando e trovando una
nuova falda acquifera potabile. Ora però la Pro Dalmine chiedeva 200 milioni di
lire. La trattiva si concluse nel 1974 con l’acquisto, da parte del Comune di
Dalmine, dell’acquedotto della Pro Dalmine con una spesa di 180 milioni.
Tratto
da http://www.facoetti.com/index.php/socdalminetenaris/223-sa-pro-dalmine
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