Soldati
Ryan» della Valle Imagna
«Su nove
fratelli eravamo al fronte in sette, ma tutti abbiamo riabbracciato nostro
padre»
È malaticcio e
non ce la fa a raggiungere a piedi la folla che lo sta aspettando.
Per lui è una giornata di festa: le autorità e il podestà, su concessione del
Duce, gli consegneranno un premio di 4.000 lire per avere cinque figli
(Gerolamo, Elia, Paolo, Tarcisio ed Ermenegildo) alle armi, durante la
seconda guerra mondiale. Il sesto figlio, Calisto, partirà l'anno dopo; il
settimo, Eugenio, è al servizio della Patria per la costruzione a Malles in
Trentino, di fortificazioni di guerra. L'ottavo, Ottavio, all'epoca aveva 15
anni.
La nona era
una femmina, Elena. Entrambi quindi non potevano partire per il fronte.
Sono passati sessant'anni da quel giorno. Dei sette figli partiti per la guerra
ne sono rimasti tre: Paolo, Tarcisio ed Ermenegildo. Papà Eugenio quel 6
ottobre venne premiato tra gli applausi dei suo concittadini e le
congratulazioni delle autorità, ma in cuor suo sperava che la guerra
finisse al più presto per poter rivedere i suoi figli.
Tarcisio e
Paolo, in particolare, riuscirono a rivedere i propri cari dopo aver
combattuto, rischiato la vita ed essere stati prigionieri in campo di
concentramento.
Tarcisio, ora 82enne, è stato caporale maggiore di fanteria in Albania e in Montenegro. «Riuscii a tornare a casa la prima volta dopo tre anni di guerra – racconta – ma dovetti subito partire per la Francia. Dopo l'8 settembre del '43 (armistizio con le forze angloamericane, ndr) venni fatto prigioniero dei tedeschi e portato a lavorare come infermiere in un ospedale del Belgio. Ricordo la fatica per tornare a casa, appena finita la guerra: sei giorni, un po' a piedi o con mezzi di fortuna, da Foggia, dove ero stato trasferito».
Paolo, oggi 84enne, era invece artigliere.
Allo scoppio della guerra rientra dalla Francia, dove lavorava come boscaiolo.
Viene trasferito in diverse caserme per poi essere mandato in Albania, dove c'era anche il fratello Tarcisio.«Probabilmente combattemmo a poche centinaia di metri di distanza – racconta Paolo - ma non siamo mai riusciti a incontrarci. Neppure quella volta che dovevamo prendere entrambi la nave per l'Italia, partendo da Durazzo. Io mi addormentai al porto e al risveglio mi ritrovai derubato di tutto. Riuscii comunque in qualche modo a raggiungere casa». Diversa la sorte del fratello Paolo: «Ci dissero che la nave ci avrebbe portato in Italia – ricorda – invece sbarcammo in Montenegro e lì ci trovammo di fronte i partigiani jugoslavi».
Tarcisio viene poi richiamato per combattere in Grecia. Dopo l'8 settembre del '43 viene fatto prigioniero dai tedeschi e a piedi costretto a raggiungere la Jugoslavia.
Da qui viene
trasferito in un campo di concentramento nelle vicinanze di Dusseldorf.
«Ricordo che ci ammassarono in piazza – dice Paolo, ora residente a
Mandello Lario, nel Lecchese – e ci spogliarono di tutto. Riuscii a
salvarmi perché mi trasferirono a lavorare in una fabbrica di carta sul Reno».
Tra i sette fratelli alle armi, dopo l'armistizio dell'8 settembre, solo Elia combatté a fianco degli alleati inglesi.
Tutti comunque
tornarono a casa. «Fu un caso unico almeno nella nostra provincia: sette
fratelli in guerra tutti salvi» dice Paolo. In paese ci fu la festa dei reduci,
con cerimonie e processioni religiose. Quattro dei fratelli Mazzoleni, ebbero
l'onore di portare la statua di San Luigi. Alla cerimonia di quel 6 ottobre
1942, quando papà Eugenio venne premiato, c'era Ottavio, l'ottavo
fratello allora quindicenne. «C'era l'ispettore di zona dei fascisti
Giosuè Frosio – ricorda – il podestà Costante Mazzoleni, e poi altre
autorità e la poca gente del paese. Tutti per ringraziare mio padre».
Si legge nella cronaca dell'epoca de L'Eco datata 6 ottobre 1942: «Il podestà, alla consegna fece seguire parole di vivo elogio al premiato, che additò alla riconoscenza dei cittadini. E l'ispettore di zona, a sua volta ebbe parole di viva ammirazione a nome del Partito».«Il premiato – continua la cronaca – con orgoglio di soldato e di fascista, ringraziò commosso gli interventi, dicendosi lieto e fiero di poter offrire alla Patria il sesto figlio, che raggiungerà presto gli altri fratelli»
Si legge nella cronaca dell'epoca de L'Eco datata 6 ottobre 1942: «Il podestà, alla consegna fece seguire parole di vivo elogio al premiato, che additò alla riconoscenza dei cittadini. E l'ispettore di zona, a sua volta ebbe parole di viva ammirazione a nome del Partito».«Il premiato – continua la cronaca – con orgoglio di soldato e di fascista, ringraziò commosso gli interventi, dicendosi lieto e fiero di poter offrire alla Patria il sesto figlio, che raggiungerà presto gli altri fratelli»
Tratto da http://www.dalmenweb.it/finestre%20storie%20vere%20bergamasche.htm
-------------------
Il pittore della realtà Rino Pianetti,
erede di Baschenis e
di Caravaggio
“Alto e massiccio, i capelli fluenti sulle spalle, l’occhio
fiero e dignitoso da antico moschettiere, pare un personaggio balzato alla
realtà dalle pagine vive e avventurose di Alessandro Dumas”. Così il critico
d’arte Antonino de Bono descrive il maestro di levatura internazionale Rino
Pianetti, “pittore della realtà”, da alcuni definito anche “il Caravaggio
contemporaneo”, all’indomani della mostra personale tenutasi presso l’ambita
Galleria d’Arte Bolzani di Milano fra il gennaio e il febbraio del 1980 [1]. Un
artista che, all’epoca, già si era imposto con successo all’attenzione della
critica nazionale e internazionale e aveva fatto della sua straordinaria dote
un vero e proprio mestiere. Come lui stesso dirà “la pittura è mestiere; non
credo all’ispirazione. Ci credo solo per la poesia: ispirazione iniziale,
perché poi, anche lì, subentra il mestiere”.
Originario della Valle Brembana, Rino Pianetti nasce a Sesto
San Giovanni il 19 aprile 1920 e trascorre la sua infanzia fra i nonni materni
a Tirano, in Valtellina, e i genitori a Milano. È qui che viene a contatto con
la dura e cruda realtà della città moderna, della nascente metropoli: la
macchina industriale, le vie trafficate, il divario fra ricchezza e povertà,
tra vecchio e nuovo, la malavita, la prostituzione. Un mondo lontano e diverso
da quello pacifico e generoso della baita di Dom Bastone, in Valtellina, o
degli alpeggi brembani che è solito visitare in compagnia del padre.
“Sono stato un bambino ribelle, indisciplinato, non amavo la
scuola, mi piacevano solo l’italiano e il disegno”, così si rivela nel 1982 in
un’intervista per la rivista d’arte Italia Artistica. “Se non è retorico dirlo,
sono proprio nato con il sacro fuoco: in quinta elementare ho fatto il ritratto
alla maestra, tutto di getto. Ero pieno di inventiva, forse disegnavo meglio di
adesso, avevo un segno rapido, immediato. Quando avevo diciotto anni mio padre
non voleva saperne: macché pittura, bisogna lavorare! Così cominciai a vendere
– non per niente vengo da una famiglia di commercianti – e presto mi resi
indipendente”.
Timido e triste di natura, ma dal carattere forte e
aggressivo, quasi crudo al primo impatto, matura ben presto un modo di
conversare da erudito discreto, non invadente, ma spesso polemico. Inizia a
frequentare l’Accademia di Brera, ma poi scoppia la guerra e Pianetti è
arruolato nel terzo bersaglieri. Dapprima inviato sui fronti di Francia e
Jugoslavia, fa in seguito tutta la campagna di Russia, vivendo il dramma della
ritirata e la morte dell’unico fratello rimasto, Carlo (l’altro muore di
meningite in tenera età). Dirà in seguito: “ho provato a fare disegni sulla
memoria, poi ho distrutto tutto, erano falsi, è impossibile rendere quello che
ho visto di persona…”. Al ritorno dalla Russia, forzato dai rastrellamenti in
città, entra a far parte di un nucleo di partigiani di stanza nei pressi di
Colico.
Dopo il periodo bellico completa i suoi studi presso
l’Accademia delle Belle Arti di Amsterdam, ove si è diplomato. Sul finire degli
anni Quaranta debutta con opere di tendenza impressionista, risultato delle sue
ricerche e delle sue frequenti visite a musei olandesi e belgi, fortemente
influenzato e affascinato dalla pittura dei grandi maestri fiamminghi.
Risalgono a quest’epoca le sue prime mostre personali e collettive: nel 1948 al
Tapié di Parigi; nel 1949 allo Stedelijk Museum di Amsterdam, al Palais de
Versailles a Versailles, all’Achard de Voiron di Parigi.
Il suo rientro in Italia coincide con la personale presso la
Galleria Pro Arte di Bergamo, tenutasi nel 1952, alla quale seguono quelle al
Kursaal di Lugano, al Circolo degli Artisti di Luino, alla Galleria Ranzini di
Milano, quest’ultima nel 1954. Le sue opere continueranno, nel frattempo, a
percorrere le strade d’Europa, con le mostre al Palais Azurara di Lisbona, nel
1954; all’International Art Treasures Exhibition di Londra, nel 1961; alla
Galerie Motte di Ginevra, nel 1962. Fra le tante organizzate nel milanese, sono
da ricordare quelle alla Galleria Sagittario del 1966, all’Ars Italica nel 1968
e nel 1971, alla Galleria Bolzani nel 1980 (per realizzare quest’ultima mostra
si rifiutò di vendere per ben due anni). La popolarità e l’apprezzamento delle
opere di Rino Pianetti raggiungono in questi anni il loro apice, tanto che il
Comune di Milano decide, nel 1983, di conferirgli l’Ambrogino d’Oro, la massima
onorificenza cittadina. Il resto dei suoi anni li vive in modo appartato,
sempre meno sulla scena, ma dedicando, come in passato, dodici, tredici ore
giornaliere e anche più al suo mestiere, la pittura. Alla sua morte, avvenuta a
Milano il 9 maggio 1992, le sue ceneri sono tumulate tra “i cittadini noti e
benemeriti” del Cimitero Monumentale di Milano.
Affrontare oggi uno studio approfondito sulla pittura di
Rino Pianetti è impresa quanto mai improba, possibile solo attraverso le
recensioni e le riviste d’arte dei primi anni Ottanta. L’enorme patrimonio
artistico del “pittore della realtà”, così lui stesso amava definirsi, si è
infatti disperso, oltre che nei musei, nelle varie collezioni private italiane
e straniere, come già si era verificato per il primo periodo del maestro
(periodo impressionista) che va dal 1938 al 1960. Le sue tele fanno parte di
collezioni importanti: Re Faruk d’Egitto, Scià Mohammed Reza Pahlavi, Soraja,
Aldo Moro, Alighiero Benvidas (ministro spagnolo della giustizia), Stefano
Colombo, Otto Hauftmann di Berlino, Costanzo Gaetano di San Francisco, Victor
Nauffal di Beirut e molte altre personalità dell’industria, dello sport, del
cinema e del teatro. Rino Pianetti è considerato, insieme al pittore di origine
armena Sciltian (1900-1985) e al ritrattista Annigoni (1910-1988), uno dei
massimi esponenti del realismo contemporaneo, un realismo caratterizzato da una
forma pittorica che esalta la purezza del disegno, la precisione prospettica,
la meticolosa ricerca del colore e lo studio rigoroso della luce. Il suo
indirizzo pittorico, a parte i famosi ritratti a grandi personalità italiane e
straniere, si basa sulla ricerca del particolare e sullo studio analitico della
materia, prediligendo una tematica puramente verista. Egli guarda gli oggetti
con lo stupore del poeta, ma li rappresenta nella loro realtà immediata, viva e
palpitante, senza metafore e senza simbolismi.
Il Pianetti nasce e vive a Milano, viaggia in Europa, i suoi
orizzonti sono aperti al mondo, ma il suo sguardo è spesso rivolto alla sua
terra d’origine, la bergamasca, e la Valle Brembana in particolare [2]. In lui
rivivono i sentimenti e le espressioni dei grandi maestri della pittura, del
Baschenis, del Caravaggio. Egli è però artista del nostro tempo, ed ecco
apparire accanto a violini e liuti (il riferimento al Baschenis è qui assai
evidente) due paia di occhiali, il Corriere della Sera, due scarpette rosse
(“Scarpette rosse”, 1977). E guardando l’opera “Rapsodia Estiva” (1984) non si
può non pensare ai grappoli d’uva del “Bacco” di Caravaggio: chicco per chicco,
ne traspare la fragranza, la trasparenza, il sapore; eppure quest’uva non l’ha
copiata, è sua, talmente reale da essere vera.
Nature morte, soggetti floreali, composizioni con strumenti
musicali, ritratti di persone, nudi femminili. La sua tematica spazia in ogni
campo e si arricchisce, nella fase più recente della sua attività artistica, di
un mondo che non è estraneo alla sua formazione psicologica: il mondo contadino
della montagna, un mondo semplice e puro, ancor lungi dall’essere macchiato
dagli infidi segni della civiltà moderna. Questo mondo è rappresentato con
prodigiosa perfezione di memoria e di osservazione, si riveste di naturalezze
espressive tipiche della civiltà agreste e della vita di tutti i giorni, con
l’uomo e gli animali che qui vivono e lavorano. È la realtà, linda e naturale,
della montagna valtellinese, quella materna, quella osservata dalla rustica
baita di Dom Bastone – così come appare nelle opere “Lassù dove la vita è
amore” e “L’ora della mungitura” (1982) – ma ancor più della montagna brembana,
quella paterna, quella delle origini, che vive tuttavia con forte e malinconico
distacco [3]. Rino Pianetti ama la valle e la sua gente, perché umile,
lavoratrice, ancorata alla tradizione. È dalle sue frequenti peregrinazioni in
terra brembana, sugli alpeggi e nei paesi dell’alta valle, che nascono opere
significative come “Mandriano bergamasco” (1979), il ritratto di un vecchio
dall’aspetto saggio e affettuoso i cui occhi, accorti e bonari, risaltano
dall’incarnato bronzeo acquisito nelle altitudini montane e le cui mani, capaci
e rugose, magistralmente eseguite dall’artista, ben rappresentano l’arduo
lavoro quotidiano. Potenza evocativa che ugualmente emerge dall’olio
“Pastorello bergamasco”, ma anche ne “L’attesa” e “I due cuccioli” (1979).
Tutto è intriso dai segni del tempo, ogni particolare viene portato alla luce
con scrupolo certosino: la vecchia porta, le mura intonacate della stalla, i mattoni
sbrecciati, le pietre, gli strumenti del lavoro contadino. L’eccezionale ed
abile maestria traspare dalle pieghe degli indumenti, dalla sofficità del lungo
pelo degli animali, dalle fessure e dalle crepe del legno e del cemento; e, a
non bastare, ecco la nuda realtà, gli effetti che l’artista ha aggiunto alla
scena per portare l’opera ad essere contemporanea: i blue-jeans, il sacchetto
di plastica.
L’elemento moderno, contemporaneo, è una costante nell’arte
di Rino Pianetti: lo si incontra nelle tele che rievocano il Baschenis, nelle
nature morte, nelle composizioni con gli oggetti della vita quotidiana, i
libri, la pipa, l’immancabile paio di occhiali. Questi elementi ovviamente non
compaiono accentrati e a disposizione, il più delle volte sono a se stanti e
vanno ricercati e trovati. Sono oggetti, ma talvolta anche messaggi di una
realtà, attuale e sincronica, che traspare in particolar modo nei quadri che
raffigurano la campagna lombarda, quella milanese, sferzata più di altri
luoghi, causa la vicinanza alla metropoli, dal vento triste e corrotto della
modernità. Il soggetto, in questo caso, fa da tramite nel racconto pittorico ed
entra in una sfera socio-politico-esistenziale tesa a sottolineare il contrasto
fra il costume di vita tradizionale e l’invadenza progressista dei mass-media e
del consumismo pratico e ideologico. Si notino, a questo proposito, il
manifesto pubblicitario di una lavatrice nell’opera “Lavatoio di paese” (1983),
il simbolo delle Brigate Rosse tracciato sul muro decrepito di un cascinale in
“Ora pro nobis” (1983), o ancora il bambino in blue-jeans, in “Amici per la
pelle” (1983), nell’atto di fare pipì contro un muro sul quale è affisso un
invito alla marcia della pace, mentre alle sue spalle galleggia placida in una
pozza la tipica lattina rossa della Coca-Cola.
Una realtà studiata e narrata nei minimi dettagli. È questo
il segreto di Rino Pianetti: l’arte diviene l’essere delle cose, assume un
valore metafisico, si ferma l’immagine della “realtà-verità”. Un’arte che è
insicurezza del presente e incertezza del futuro, dove pervade il tema
ricorrente e morboso del tempo che passa, della morte. È il senso del presente
fuggevole, quello che Leonardo sentiva al toccare l’acqua di un fiume: “è
l’ultima di quella che viene, la prima di quella che va. Così il tempo
presente”.
Il linguaggio evocativo di Pianetti si snoda dunque
attraverso un rigore costruttivo imperniato su varie tematiche psicologiche e
formali. Il suo occhio attento e diligente agisce da flash tanto all’esterno
sulla realtà, quanto all’interno, nel sentimento, nella memoria. Con rispetto
ed umiltà studia la foglia e il petalo, il frutto o il tronco, la mano o i
capelli, la goccia, la cenere, il tessuto; studia la materia, che sia legno o
vetro, ferro o pietra; studia il corpo umano e animale; studia il cielo e la
montagna. La gente lo ricorda mentre con attenzione scruta e studia le porte di
legno, i catenacci, le pietre e i mattoni delle vecchie baite di montagna o
delle cascine della campagna milanese. O quando, nelle osterie, trova dei volti
che lo ispirano e li ritrae sul luogo, incurante del chiasso e della curiosità
dei presenti. Così è nato, per esempio, “I compagnoni” (1978), grande quadro di
tre ubriachi colti ciascuno nell’espressione del momento: uno con la bocca
sdentata aperta nel canto, quello centrale con le labbra serrate in ghigno
ostile, il terzo che ride stupidamente. Di verghiano verismo è invece “Nando il
barbone” (1979), dalle rughe scavate e dallo sguardo compassionevole: “era un
barbone del Verziere, ha posato per me ma non ha mai accettato una lira. Solo
Vodka” dirà il pittore in un’intervista [4]. E, parlando di ritratti, non si
possono non citare “Omaggio al Vecio (Cavaliere di V.V.)” (1980), volto fiero e
vissuto dell’anziano genitore, e “Baciccia il pescatore” (1974), che tuttavia
alcuni attribuiscono al volto triste e sofferto di un parente molto stretto.
Questo è Rino Pianetti, pittore della realtà. L’essenza
della sua arte è oggi fermata nelle parole da lui stesso incise nella pietra –
pietra che ormai ha preso il suo nome, Sasso Pianetti – presso la rustica baita
di Dom Bastone, a 2114 metri: “Ascolta il silenzio del cielo, il linguaggio del
vento, il canto della fonte, inebriati di questi colori. Ricrederai che al di
là e al di sopra del volere degli uomini esiste un’unica, assoluta,
inconfutabile realtà: l’amore”.
Note:
[1] Rino Pianetti, Pittore della realtà in Arte più Arte, n.
2, marzo-aprile 1980.
[2] L’affetto per i luoghi d’origine lo porta a tenere due
mostre molto significative, che riscuotono un meritevole successo: la prima si
tiene presso la biblioteca comunale di San Giovanni Bianco nel 1978, mentre la
seconda presso la Galleria Berna di San Pellegrino Terme nel 1984. Per alcune
sue opere lo si può collegare idealmente alla grande tradizione pittorica
brembana che, tra i “pittori della realtà”, annovera Baschenis e Ceresa.
[3] Rino Pianetti è nipote diretto del truce e leggendario
Simone, efferato “giustiziere” che nell’estate del 1914 uccise a fucilate ben
sette persone nei paesi di San Giovanni Bianco e Camerata Cornello. La triste
vicenda, ragione per la quale la famiglia ha poi lasciato la valle
trasferendosi nel milanese, non è altro che un brutto ricordo che si ripresenta
in lui ad ogni ritorno, proprio perché ha infelicemente condizionato la sua
infanzia e la vita della famiglia; non ama parlarne, tant’è che neanche la
critica, vuoi per rispetto, vuoi per sua esplicita richiesta, fa alcun
riferimento all’episodio. Riguardo alla scomparsa del nonno, ovvero alla sua
fuga oltreoceano e a un suo ipotetico ritorno in Italia, egli ha sempre
riportato la certezza del padre, unico e ultimo dei familiari a raggiungerlo
sul monte Pegherolo, dove appunto si pensa sia morto.
[4] Il vero realismo di Rino Pianetti in Prospettive d’arte,
Febbraio 1982.
Tratto da
http://bergamosegreta.blogspot.it/search/label/*%20Personaggi
di Denis Pianetti
-----------------
Addio a Umberto Filippini,
il
soldato scampato all’eccidio di Cefalonia
È morto all’età di 94 anni.
Ex casellante delle ferrovie di Arcene, portava spesso la sua testimonianza
nelle scuole. Il ricordo peggiore della guerra, la casetta rossa dove vennero
trucidati i suoi compagni
Il 10
maggio del 1943 era nell’isola greca di Cefalonia, tre mesi dopo arrivarono i
tedeschi. Dopo l’8 settembre erano iniziate le trattative, andate a vuoto, che
però portarono il giorno 15 all’inizio della carneficina. «Aveva vissuto
momenti drammatici, il ricordo più brutto e assillante era quello della casetta
rossa, dove vennero trucidati i suoi compagni a gruppi con massacri continui -
ricorda la moglie -. Lui riuscì a salvarsi miracolosamente, perché si trovava
lontano».
CEFALONIA 1943
Storia di una strage
"Spezzeremo
le reni alla Grecia!". Con queste parole, il 15 luglio 1940, Benito
Mussolini annunciò l’inizio della conquista della Grecia; ma di fronte ai
disastri militari italiani, fu necessario l’intervento della Wermacht tedesca.
Alla fine le forze dell’Asse riuscirono a conquistare Atene. L’isola greca di
Cefalonia venne presidiata dalla divisione Acqui del comandante generale
Gandin.
Il fronte della guerra è lontano. Fino al 1943 i soldati italiani non sparano
un solo colpo d’arma da fuoco. Gli abitanti dell’isola imparano a conoscere un
nemico dal volto umano.
Ma di lì a poco le cose sarebbero cambiate.
Il 25 luglio 1943 Benito Mussolini rassegna le dimissioni e viene arrestato.
A capo del governo viene nominato il maresciallo Pietro Badoglio.
L’8 settembre 1943 Badoglio legge alla radio italiana il comunicato con il quale annuncia l’armistizio con gli anglo-americani: "Il Governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto l'armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze anglo-americane alleate.
Ma di lì a poco le cose sarebbero cambiate.
Il 25 luglio 1943 Benito Mussolini rassegna le dimissioni e viene arrestato.
A capo del governo viene nominato il maresciallo Pietro Badoglio.
L’8 settembre 1943 Badoglio legge alla radio italiana il comunicato con il quale annuncia l’armistizio con gli anglo-americani: "Il Governo italiano, riconosciuta l'impossibilità di continuare l'impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell'intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto l'armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze anglo-americane alleate.
La
richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le
forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo.
Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza".
A Cefalonia, un’isola greca nel mar Ionio, il messaggio di Badoglio crea un
senso di sconforto, ma anche di gioia: ora, forse, la guerra è finita davvero.
E' un'illusione. I soldati italiani non sanno più chi è il loro nemico: gli
inglesi, gli americani, i francesi o i tedeschi?
Dopo l'armistizio dell'8 settembre, mentre la nazione è allo sbando, l'esercito di stanza nell’isola di Cefalonia,la Divisione Acqui, si trova di fronte all'ultimatum dei tedeschi: resa o fucilazione. In seguito alla dissoluzione delle forze armate lasciate senza ordini dal re Vittorio Emanuele III nella sua fuga verso il Sud Italia in mano agli Alleati, a differenza della maggioranza delle altre grandi unità che, complice la situazione geografica e la vaghezza degli ordini, si arrendono ai tedeschi, la Acqui decide di resistere.
Dopo l'armistizio dell'8 settembre, mentre la nazione è allo sbando, l'esercito di stanza nell’isola di Cefalonia,la Divisione Acqui, si trova di fronte all'ultimatum dei tedeschi: resa o fucilazione. In seguito alla dissoluzione delle forze armate lasciate senza ordini dal re Vittorio Emanuele III nella sua fuga verso il Sud Italia in mano agli Alleati, a differenza della maggioranza delle altre grandi unità che, complice la situazione geografica e la vaghezza degli ordini, si arrendono ai tedeschi, la Acqui decide di resistere.
I tedeschi, per i quali comunque Cefalonia e Corfù avevano una rilevante importanza strategica, poiché controllano l'accesso al golfo di Corinto, decidono di prendere con la forza il controllo dell'isola dopo aver inviato un ultimatum al comando italiano, accompagnandolo con varie azioni belliche, come il disarmo di reparti e batterie isolati, e la presa di prigionieri italiani. Dapprima viene cercato un possibile accordo, che prevede il rimpatrio della divisione, ma ciò non rientra nelle eventualità previste dai tedeschi. Nel momento in cui questi ultimi cercano di occupare militarmente l'isola, si verifica una reazione armata da parte italiana, e le ostilità iniziano su larga scala.
L'isolamento della
divisione Acqui
A
Cefalonia non si hanno notizie fino alla sera dell’8 settembre, quando arriva
un primo comunicato da Atene, sede del comando misto italo-tedesco, da cui
dipendono tutte le divisioni italiane in Grecia.
Il messaggio, firmato dal generale Vecchiarelli, conferma quasi alla lettera il
proclama di armistizio, precisando che: "Se i tedeschi non faranno atti di violenza armata, gli italiani, non,
dico non, rivolgeranno armi contro di loro, non, dico non, faranno causa comune
con ribelli né con truppe anglo-americane che sbarcassero. Reagiranno con forza
a ogni violenza armata".
Nella serata del giorno 9, dal comando di Atene giunge un secondo comunicato del generale Vecchiarelli, dal tono disfattista e collaborazionista verso i tedeschi e palesemente in contrasto con quanto annunciato in precedenza.
Nella serata del giorno 9, dal comando di Atene giunge un secondo comunicato del generale Vecchiarelli, dal tono disfattista e collaborazionista verso i tedeschi e palesemente in contrasto con quanto annunciato in precedenza.
A Gandin, come agli altri comandanti di
divisione, infatti, viene dato l'ordine di cedere le armi collettive e di
trasferire il controllo del territorio ai reparti tedeschi: "Seguito mio
ordine dell'8 corrente Stop. Presidi costieri devono rimanere attuali posizioni
fino at cambio con reparti tedeschi non oltre però ore 10 giorno 10 Stop.
Pertanto una volta sostituite Grandi Unità si concentreranno in zone che mi
riservo fissare unitamente a modalità trasferimento Stop.
Siano lasciati ai reparti tedeschi subentranti armi collettive et tutte artiglierie con relativo munizionamento Stop.
Consegna armi collettive per tutte Forze Armate Italiane in Grecia avrà inizio at richiesta Comandi Tedeschi at partire da ore 12 di oggi. Generale Vecchiarelli".
L'ordine chiaramente è stato dettato dai tedeschi, proprio perchè Cefalonia e Corfù erano di rilevante importanza.
Essi in poche ore avevano assunto il controllo del comando italiano in Grecia, mentre il senso di isolamento e di solitudine di fronte alla presenza ostile dei tedeschi si diffonde tra le divisioni italiane.
Gandin si rende conto che la situazione è drammatica; tra il 9 e l’11 settembre si svolgono estenuanti trattative tra Gandin e il tenente colonnello tedesco Barge, che intanto fa affluire sull’isola nuove truppe.
Siano lasciati ai reparti tedeschi subentranti armi collettive et tutte artiglierie con relativo munizionamento Stop.
Consegna armi collettive per tutte Forze Armate Italiane in Grecia avrà inizio at richiesta Comandi Tedeschi at partire da ore 12 di oggi. Generale Vecchiarelli".
L'ordine chiaramente è stato dettato dai tedeschi, proprio perchè Cefalonia e Corfù erano di rilevante importanza.
Essi in poche ore avevano assunto il controllo del comando italiano in Grecia, mentre il senso di isolamento e di solitudine di fronte alla presenza ostile dei tedeschi si diffonde tra le divisioni italiane.
Gandin si rende conto che la situazione è drammatica; tra il 9 e l’11 settembre si svolgono estenuanti trattative tra Gandin e il tenente colonnello tedesco Barge, che intanto fa affluire sull’isola nuove truppe.
L'ultimatum tedesco:
l'Acqui non si arrende
L’11
settembre arriva l’ultimatum tedesco, con l’intimazione a deporre le armi.
All’alba del 13 settembre batterie italiane aprono il fuoco su due navi da
sbarco cariche di tedeschi.
Barge risponde con un ulteriore ultimatum, che contiene la promessa del rimpatrio degli italiani una volta arresi.
Gandin chiede allora ai suoi uomini di pronunciarsi su tre alternative: alleanza con i tedeschi, cessione delle armi, resistenza. In realtà l'ordine di resistere era arrivato dal comando supremo di Brindisi; ma Gandin vuole, comunque, verificare l'umore dei suoi soldati.
La mattina del 14 Gandin invia al comando tedesco la sua risposta definitiva: la divisione Acqui non accetta di consegnare le armi e decide di combattere.
Il 15 settembre comincia la battaglia, con drastici interventi degli aerei Stuka che mitragliano e bombardano le truppe italiane. Mercoledì 21 settembre i tedeschi entrano ad Argostoli, capoluogo dell'isola di Cefalonia. Nella stessa mattina, il generale Antonio Gandin dal suo quartier generale alza bandiera bianca. Ogni resistenza armata delle truppe italiane è cessata: la città di Argostoli distrutta, 65 ufficiali e 1.250 i soldati caduti in combattimento.
Barge risponde con un ulteriore ultimatum, che contiene la promessa del rimpatrio degli italiani una volta arresi.
Gandin chiede allora ai suoi uomini di pronunciarsi su tre alternative: alleanza con i tedeschi, cessione delle armi, resistenza. In realtà l'ordine di resistere era arrivato dal comando supremo di Brindisi; ma Gandin vuole, comunque, verificare l'umore dei suoi soldati.
La mattina del 14 Gandin invia al comando tedesco la sua risposta definitiva: la divisione Acqui non accetta di consegnare le armi e decide di combattere.
Il 15 settembre comincia la battaglia, con drastici interventi degli aerei Stuka che mitragliano e bombardano le truppe italiane. Mercoledì 21 settembre i tedeschi entrano ad Argostoli, capoluogo dell'isola di Cefalonia. Nella stessa mattina, il generale Antonio Gandin dal suo quartier generale alza bandiera bianca. Ogni resistenza armata delle truppe italiane è cessata: la città di Argostoli distrutta, 65 ufficiali e 1.250 i soldati caduti in combattimento.
L’Acqui si deve arrendere e la vendetta tedesca sarà spietata. Il Comando superiore tedesco ribadisce che "a Cefalonia, a causa del tradimento della guarnigione, non devono essere fatti prigionieri di nazionalità italiana, il generale Gandin e i suoi ufficiali responsabili devono essere immediatamente passati per le armi secondo gli ordini del Führer". La Wehrmacht a Cefalonia non farà prigionieri.
Il 24 settembre il generale Gandin viene fucilato alla schiena; migliaia di soldati italiani con i loro ufficiali sono sterminati dal tiro delle mitragliatrici. In tutto i soldati uccisi saranno 9700, tra cui 446 ufficiali e 3000 superstiti morti poi nel tentativo di fuga, in mare.
L’impresa della divisione Acqui giunge così al suo epilogo.
Da allora, il nome della divisione è legato indissolubilmente all'eccidio di Cefalonia da parte dei tedeschi.
Tratto
da http://www.pacioli.net/ftp/def/cefalonia/cefalonia_storia_di_una_strage.htm
---------------------
Storia delle
Foibe: cosa sono,
riassunto le foibe e giorno del ricordo.
----------------------------------- Gino Bartali
dichiarato "Giusto tra le Nazioni"
riassunto le foibe e giorno del ricordo.
Il 10
Febbraio è la data in cui si celebra la giornata del ricordo per non
dimenticare la storia delle Foibe. Ecco cosa sono le Foibe, riassunto le foibe in breve e giorno del ricordo.
La
storia delle foibe e la strage che si consumò tra il 1943 ed il 1945 sono
ricordate ogni anno in Italia il 10 Febbraio, Giornata del ricordo. Per
comprendere cosa sono le foibe, bisogna ricordare in breve quali sono i fatti
che portarono al compimento di questo eccidio, definito anche come “strage
dimenticata”.
La
storia delle Foibe e le cause che determinarono questo massacro affondano le
radici ai primi anni del Novecento. Innanzitutto bisogna precisare cosa sono le
foibe, ossia delle cavità carsiche, spaccature naturali del terreno localizzate
presso le montagne del Carso, in Friuli. Ma cosa si ricorda il 10 Febbraio?
Tra il
1943 ed il 1945 furono gettate in queste fosse, migliaia di uomini, donne e
bambini, sia morti che vivi.
Per
comprendere i motivi della strage delle foibe, bisogna fare un passo indietro,
ed inquadrare le situazione politica dell’Italia nei primi anni del 1900. Ecco
una breve sintesi ed il riassunto che spiega la storia della strage delle
foibe.
Storia
delle foibe: riassunto le Foibe in breve e sintesi della storia e delle cause
della strage.
All’inizio del XX secolo nel Friuli
convivevano numerose persone di etnie diverse: italiani, croati, serbi,
sloveni. Il processo di nazionalizzazione avviato da Mussolini impose che in
queste determinate zone dell’Italia venisse parlata soltanto la lingua italiana
in pubblico, e che le persone slave che vivevano nel territorio italiano,
mutassero i loro cognomi in altri di origine sempre italiana. Le imposizioni
fasciste del 1922 alimentarono un diffuso malessere tra gli stranieri che
abitavano il Friuli e gli altri territori dell’Italia. Pertanto iniziarono a
formarsi delle vere e proprie organizzazioni antifasciste, appartenenti ale
regime social-comunista.
La storia delle foibe ha origine proprio nel
fallimento di queste politiche di integrazione imposte agli slavi, che invece
iniziarono a coltivare un profondo odio nei confronti dello Stato italiano.
Quando Hitler attaccò la Jugoslavia, divise i territori conquistati tra Italia
e Germania. Le organizzazioni antifasciste si ribellarono, e lo Stano italiano
fece costruire dei campi di lavoro dove venivano detenuti gli oppositori al
regime. Il 3 settembre del 1943 l’Italia firmò segretamente un armistizio con
gli Alleati, diffuso da Badoglio solo l’8 Settembre. Si creò pertanto un vuoto
di potere e le organizzazioni comuniste slovene e croate iniziarono ad avere
sempre più forza e controllo dei territori in cui risiedevano: fu in questo
periodo storico in cui la strage delle foibe iniziò.
Giorno
del ricordo e storia delle foibe: le cause dell’eccidio
Le vicende che seguirono determinarono che
il numero dei morti delle foibe diventasse sempre più alto: in Istria e
in Dalmazia i partigiani slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani
non comunisti. Torturano, massacrano, affamano e poi gettano nelle foibe circa
un migliaio di persone. Ancora oggi non si sa con sa con esattezza quante
furono le vittime delle foibe, date le difficoltà di rinvenire i corpi
all’interno delle voragini. Nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia
guidata dal Maresciallo Tito occupa Trieste, Gorizia e l’istria, ci furono
numerose vittime italiane.
Secondo la storia delle foibe,
furono infoibati non solo fascisti, ma anche cattolici, liberaldemocratici,
socialisti, donne e bambini. Molti innocenti furono massacrati, giustiziati, ed
infine gettati nelle fosse carsiche, destinati pertanto a morte certa.
I martiri delle foibe rappresentano le
vittime di un genocidio voluto da Tito per liberare i territori della
Jugoslavia da coloro i quali non erano comunisti.
Nella primavera del 1947 è
stabilito il confine fra l’Italia e Jugoslavia, con la fine della
II guerra mondiale, l’Istria e la Dalmazia vengono cedute alla Jugoslavia.
L’Italia non accoglie o aiuta trecentocinquantamila profughi che scappano dalla
Jugoslavia comunista alleata con l’URSS.
Giorno del
ricordo 2016: coordinamento nazionale docenti della disciplina dei Diritti
umani
“Per tutta la durata del cosiddetto
“dopoguerra” fino ai nostri giorni, la crudele vicenda delle foibe è stata
ignorata nel totale disinteresse delle forze politiche, solo nel 2005 il
Parlamento italiano ha dato inizio all’annuale commemorazione di una delle
pagine più tristi della nostra storia”.
“Oggi il comportamento vile e odioso degli
aguzzini del tempo ci appare lontano, relegato ad un contesto storico-politico
terribile e disperato. Ma ricordare ci aiuta a comprendere quanto sia labile il
confine che ci separa da tragedie molto simili che si consumano oggi nel mondo.
La storia si ripete in quelle terre in cui la guerra e le devastazioni
colpiscono la popolazione innocente. Quei popoli che oggi bussano alle porte
dei confini europei, un tempo furono italiani istriani cacciati dalla follia
vendicativa dei partigiani di Tito”.
“Riteniamo che nella scuola pubblica italiana, – Coordinamento
nazionale docenti della disciplina dei Diritti umani – oggi più che mai, sia
necessario uno sforzo pedagogico che spinga alla comprensione dei fenomeni
storici che ciclicamente si ripetono, al fine di ancorare al rispetto dei
diritti fondamentali dell’uomo ogni azione futura. La carta dei diritti, nata
dalle macerie morali della seconda guerra mondiale, va osservata come
necessaria conquista di civiltà e posta come base della società occidentale.”
Tratto da http://www.controcampus.it/2016/02/giorno-del-ricordo-2016-per-non-dimenticare-il-10-febbraio-del-1947/
Riconosciuto al ciclista fiorentino
l'impegno durante la Resistenza
Lo
Yad Vashem, il sacrario della Memoria di Gerusalemme, ha dichiarato il ciclista
italiano Gino Bartali, "Giusto tra le Nazioni", massimo
riconoscimento per i non-ebrei che si sono impegnati a costo della vita contro
l'Olocausto e per salvare i perseguitati. Sul sito dell'organizzazione è
apparsa oggi la scheda
del celebre ciclista, nato a Firenze nel 1914 e deceduto nel 2000. Sulla scheda
è presente anche la motivazione: nel 1943, durante l'occupazione nazista,
Bartali faceva da staffetta per la Resistenza trasportando nella canna della
bicicletta documenti falsi necessari a mettere in salvo le persone in pericolo.
Bartali, un cattolico devoto, nel corso
dell'occupazione tedesca in Italia ha fatto parte di una rete di salvataggio i
cui leader sono stati il rabbino di Firenze Nathan Cassuto e l'Arcivescovo
della città cardinale Elia Angelo Dalla Costa (riconosciuto Giusto tra le
Nazioni nel 2012). Questa rete ebraico-cristiana, messa in piedi a seguito
dell'occupazione tedesca e all'avvio della deportazione degli ebrei, ha salvato
centinaia di ebrei locali ed ebrei rifugiati dai territori prima sotto
controllo italiano, principalmente in Francia e Yugoslavia
Secondo
le testimonianze, Bartali facendo da corriere partigiano avrebbe salvato la
vita a circa 800 ebrei. Non è la prima volta che il ciclista riceve un
riconoscimento postumo per il suo impegno durante la guerra. Già nel 2005 il
presidente Ciampi lo aveva insignito della medaglia d'oro al merito civile.
Sul
sito dello Yad Vashem sono riportate anche le testimonianze che confermano come
Bartali, consapevole dei rischi che correva, trasferisse falsi documenti a vari
contatti e tra questi il rabbino Cassuto. Shlomo Goldenberg-Paz, che all'epoca
aveva 9 anni, ha raccontato allo Yad Vashem di un incontro tra Bartali e
Armando Sizzi, un amico di famiglia, e che più tardi la sua famiglia trovò
rifugio dalle persecuzioni in un appartamento fiorentino di proprietà dello
stesso ciclista.
Tratto
da http://www.outdoorblog.it/post/150383/gino-bartali-dichiarato-giusto-tra-le-nazioni
Nessun commento:
Posta un commento